domenica 16 marzo 2008

Pasqua, holi e la primavera

La prossima settimana vi sono diverse festività per diverse religioni. Il giovedì 20 febbraio c’è il compleanno del profeta Maometto, per cui grande festa per i musulmani. Il 21 tocca i cristiani con il venerdì santo ed i parsi con il “nau roz”. Il 22 è la festa dei colori (holi) per gli indù, gianisti e sikh. Il 23 è la pasqua. Il 24 c’è il lunedì della pasqua e il 26 il “khordad sal”, il compleanno del profeta Zaruhusthra.

Tanti auguri a tutti noi di tutte le religioni. Speriamo che sia un momento di pace per tutti. Sopratutto per tutti quelli che si trovano nelle terre dove prevale la violenza.

Mi dispiace essere lontano dall’India, per non poter celebrare holi con gli amici. Qui sarà un giorno come tutti gli altri mentre in India, tutti giocheranno i colori, balleranno e canteranno insieme.

Questa mattina, quando mi sono svegliato all’improvviso ho pensato a una domanda: come mai tutte le feste cristiane seguono il calendario cristiano ma non la pasqua?

Tutte le feste che seguono altri calendari, come le feste indù che seguono il calendario vikram-samvat, sembra che cambiano la data ogni anno perché siamo abituati a ragionare soltanto con il calendario cristiano. Non le feste cristiane, che hanno le date fisse, sono sempre il 25 dicembre, 8 dicembre, e così via. Ma non la pasqua che cambia la data ogni anno. Quale calendario segue la pasqua?

L’ho chiesto a mia moglie, ma lei non mi sapeva rispondere e ha suggerito di cercare la risposta sull’internet. Ho trovato la risposta al sito di
Lunario.com. La pasqua si celebra la prima domenica dopo la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera (21 marzo). Quest’anno equinozio di primavera e la luna piena sono allo stesso giorno, il 21 marzo e così la pasqua è la domenica successiva, il 23 marzo.

sabato 15 marzo 2008

La Coop schizofrenica?

Ieri mentre tagliavo un pomodoro, ho trovato un bollino della Coop attaccato ad essa. Incredulo sono andato a controllare tutti i pomodori che mia moglie aveva comprato. Su ogni pomodoro c’era un bollino.

Un bollino significa una piccola etichetta di 2,5 cm circa, con un pezzo di carta sulla quale è stampato il marchio Coop con il blu, verde e rosso, e una pellicola di plastica dietro con la colla adesiva. Cosa serve questa etichetta? Serve a ricordarti che è un prodotto Coop.

Poi cosa ne fai di questa etichetta? Ma che tipo di domanda è questa, è ovvio che cerchi di staccarla e buttarla via nella pattumiera. Non si mangiano queste etichette. E non hanno le vitamine.

Il nuovo numero di Consumatori Coop ha una pattumiera piena di rifiuti sulla copertina e parla di rifiuti quotidiani.

Immagino come me, tanti altri soci di Coop ci credono in una cooperativa che parla di rispetto dei consumatori, rispetto dell’ambiente, rispetto della natura. In ogni caso, con il caro prezzi che c’è, non penso che comprerò un pomodoro o una mela soltanto perché hanno il bollino di una marca. Comprerò il prodotto che da buona qualità ad un prezzo accessibile.

Allora perché la Coop spreca diversi centinaio di Euro per far confezionare questi bollini che non aggiungono niente al prodotto, ma contribuiscono alle montagne di rifiuti inutili e sicuramente non fanno bene all’ambiente?

Quello che è peggio è che a nessuno dei dirigenti della Coop frega un cazzo di questi discorsi. Provate a protestare. So già cosa vi risponderanno. “Siamo un sistema di mercato e i bollini sui prodotti Coop servono a salvaguardare il marchio dell’azienda …”

venerdì 14 marzo 2008

Le diverse facce dell’estremismo

La protesta del rabbino di Bologna contro la presenza dell’Europarlamentare Luisa Morgantini in una cerimonia che parlava delle vittime dell’olocausto, “perché parla a favore di palestinesi e contro lo stato di Israele”, mi ha fatto pensare molto.

Spesso si sentono storie di bambini abusati da genitori alcolizzati o violenti che crescono con una rabbia dentro di loro e diventati adulti, ripetono gli stessi abusi e violenze contro i propri figli. Forse le scelte del governo israeliano nelle ultime decadi seguono un po’ questa stessa storia? Se no, come si può spiegare che alcuni governanti di un popolo uscito da esperienze terribili, dall’olocausto, dalle camere di gas, delle persone chiuse dentro i ghetti, delle persone bersagli di tante ingiustizie, possono diventare altrettanto feroci contro altri popoli? O forse si tratta della sindrome di paranoia dei perseguitati, che reagiscono con troppa ferocia alle minacce per non essere perseguitati un’altra volta?

Penso che gli estremisti del popolo palestinese vanno condannati senza equivoci, ma le risposte delle autorità israeliane che basano sulla filosofia di “uccidere venti per ogni cittadino colpito”, punire tutta la popolazione palestinese, chiuderli nei ghetti dentro i muri, rendere la loro vita sempre più difficile e stremata, sono ingiuste e di sicuro non portano alla via della pace in quella terra martoriata. Anzi a me puzzano di atteggiamenti simili a quelli usati dai nazisti nei confronti degli ebrei.

Penso che i responsabili e i rappresentanti delle comunità ebree sbagliano se equiparano le critiche verso certi comportamenti dello stato israeliano all’antisemitismo. E’ successo la stessa cosa al nipote di Mahatma Gandhi, sig. Arun Gandhi, quando è stato costretto a lasciare il suo incarico presso l’Istituto M.K.Gandhi per la Non Violenza negli Stati Uniti perché aveva criticato le politiche dello stato israeliano verso i palestinesi. La ferocia del lobbi degli ebrei conservatori americani che sostengono le azioni dei falchi del governo israeliano per silenziare qualunque critica verso l’Israele è ben saputa, ma immaginavo maggiore saggezza da parte della comunità ebraica di Bologna.

Nei forum di discussioni indiani, vi è molta ammirazione verso queste politiche dell’Israele da parte degli indù più conservatori, i quali vorrebbero reagire con maggiore durezza verso gli estremisti islamici in India. Dopo un po’ di discussioni salta fuori che per loro India deve diventare un paese senza musulmani. E citano spesso il modo di agire dell’Israele, per proporre che “anche noi dobbiamo uccidere venti o cinquanta o cento di loro per ogni indù ucciso”. Penso che sia una pazzia che questo sogno all’Hitler sia lanciato proprio dall’Israele. Ho chiesto a loro, “Quanti decenni sono che Israele prosegue con questo tipo di politiche? Tutto questo spargimento di sangue ha fermato le bombe e gli attacchi terroristici in Israele? Se sono costretti a costruirsi un muro e chiudersi dentro come gli animali allo zoo?”

Leggere del coraggio delle persone semplici, vittime del nazismo e del antisemitismo, è stata la mia ispirazione da bambino. A partire da Leon Uris, difficilmente rinuncio a leggere un libro su questo tema. Se le critiche alle politiche repressive dell’Israele ed i richiami alle scelte di pace e di dialogo possono essere strumentalizzate per dimostrare che sono antisemiti, come è successo a Luisa Morgantini, penso che sia una faccia di estremismo anche questa.


***

Le discussioni in Italia per rivedere la legge 194, tutti questi proclami verso “rispetto della vita”, mi fanno pensare ad un’altra guerra santa, giocata sulla pelle degli altri.

Durante la mia esperienza di medico in India ho tenuto in braccio una donna che moriva da un’emorragia dopo aver tentato un aborto clandestino. Sono stato vicino alla moglie di un amico, la quale aveva scelto di abortire perché aveva due gemelli con meno di un anno e pensava di non potersi permettere un altro figlio e ho visto la sua disperazione e il suo dolore. Conoscevo anche un’infermiera, la quale aveva preferito abortire perché ancora non era sposata, ma aveva avuto delle complicazioni e dopo non aveva potuto avere figli.

Penso che la scelta di abortire di una donna sia una questione delicata e difficile. Ha tante sfaccettature. Personalmente posso essere contrario, ma non sono io che porterò un bimbo dentro di me e penso che la decisione aspetta a loro. Non penso che sia giusto costringere una donna a tentare l’aborto clandestino e di morire dissanguata. La prevenzione degli aborti è più efficace se il paese e la società hanno politiche di sostegno alle mamme e alle famiglie.

In Italia le discussioni sul sostegno alle famiglie finiscono per parlare contro gli aborti e contro i matrimoni tra gli omosessuali. Secondo me si sbagliano. Non sono gli aborti ed i matrimoni tra gli omosessuali che minacciano le famiglie, intese come persone con i figli. Invece non parlano di quasi mai di creare leggi sulle questioni economiche, sociali e culturali, che rendono la vita difficile per le famiglie con bambini.

Se la vita è il valore supremo, non si deve abortire, e non si deve lasciare che una persona in coma può morire, come mai nel mondo continuano a morire ogni anno più di 10 milioni di bimbi con meno di 5 anni per cause facilmente prevenibili? L’economia di ingiustizia del mondo globalizzato, la vendita delle armi, la corruzione, lo strapotere delle grandi multinazionali, non sono anche questi gli strumenti contro la vita?

George Monbiot, in un recente articolo sul giornale inglese The Guardian, ha scritto che i tassi di aborto sono inversamente correlati con l’uso dei contraccettivi, e che il tasso di aborti è più alto nei paesi più religiosi: 12 per mille nel nord Europa, 18 per mille nel sud Europa, 23 per mille in America del nord, 33 per mille in sud America, 39 per mille in Africa orientale.

Secondo OMS, ogni anno 65-70 mila donne muoiono di aborti illegali e 5 milioni hanno le complicazioni dovute agli aborti illegali.

Penso che parlare di vietare l’aborto non tiene conto della realtà del mondo. Lo scandalo di Genova per il quale si è suicidato il ginecologo Rossi perché “praticava aborti clandestini” in un paese dove si può avere aborto terapeutico legale secondo la legge 194, dimostra che le cause degli aborti clandestini sono molteplici. Lanciare crociate contro l’aborto terapeutico e invocare una legge che li vieti o che li rende ancora più difficile, non aumenterà la clandestinità? Penso che le persone che propongono queste politiche forse non capiscono il dramma delle donne che decidono di abortire.

E’ importante avere una legge che cerchi di sostenere le donne, di aiutarle a trovare soluzioni e se non trovano nessuna soluzione, sostenerli nella loro scelta. E’ già drammatica e dolorosa, e sicuramente non merita la pena di morte e di malattia che di fatto si infligge su di loro costringendole agli aborti clandestini.

giovedì 6 marzo 2008

Storia d’amore: Jodha Akbar

“Jodha Akbar” è il nuovo film di Ashutosh Gawarikar, il regista di “Lagaan: c’era una volta in India”. Dopo Lagaan, aveva girato Swadesh, il film sull’incontro di uno scienziato di origine indiana che lavora alla NASA con l’India dei villaggi. Ormai Gowarikar si fatto un nome per un regista originale che sceglie temi fuori dalle solite logiche di Bollywood. Allo stesso momento, ha la reputazione per essere un regista molto preciso che gira dei film lunghissimi. Sia Lagaan che Swadesh duravano più di tre ore.



“Jodha Akbar”, storia d’amore tra Jodha, una principessa indù del Rajasthan e Akbar, l’imperatore Mughal musulmano, rinforza questa reputazione di Gowarikar. E’ un film originale, preciso e lunghissimo, dura circa tre ore e venti minuti. E’ un film nella tradizione di film spettacolari come Benhur o Cleopatra con delle scenografie enormi e costose con la ricostruzione di palazzi, corti imperiali e l’impiego di migliaia di comparse e animali, senza fare ricorso agli effetti speciali per creare le armate. Nonostante tutto questo imponente e magnifico contorno, il film riesce soprattutto nei momenti di intimità tra i due protagonisti principali, Hrithik Roshan nel ruolo dell’imperatore Mughal, Akbar e Aishwarya Rai nel ruolo della principessa Jodha.



Trama: Principe Jalaluddin ha 14 anni, quando muore il suo padre, l’imperatore Babar, figlio di Hamayun, il quale proveniva da Asia centrale e aveva invaso l’India. Jalaluddin è nato in una casa di Rajput indù durante uno dei viaggi dell’imperatore ed è stato allevato dalla governante Maham Anga (Ila Arun) mentre sua madre la regina Hamida Banu (Poonam Sinha) spesso viaggiava con il marito. Proclamato imperatore, all’inizio Jalulddin si lascia guidare dai consiglieri reali, ma poco alla volta decide di ribellare alle severe e crudeli usanze del suo esercito. Dichiara che lui è indiano, non vuole essere un invasore e vuole una politica di consenso.

Invece di attaccare i vari principati del Rajasthan, imperatore Jalulddin li propone di diventare i suoi vassalli. Alcuni re Rajput decidono di ribellare e attaccare, altri accettano la proposta dell’imperatore e altri ancora cercano una via di uscita. Tra quest’ultimi c’è Raja Bharmal (Kulbhushan Kharbanda) il quale propone propria figlia principessa Jodha in matrimonio all’imperatore. Dopo molti pensamenti e i consigli contrari dei preti musulmani e della governante, l’imperatore decide di accettare la proposta di matrimonio.



Ma la principessa Jodha non è una donna qualunque, ha imparato l’arte della lotta e ha un forte carattere. L’imperatore ammira questa donna forte che rifiuta di cambiare religione, insiste per avere un suo tempio indù dentro il palazzo e chiede rispetto da tutti come la regina. Maham Anga, la governante è abituata a comandare nell’harem e ha l’orecchio dell’imperatore, è contraria alla regina Jodha e trama un piano per farla fuori. Riesce a creare malintesi e la regina viene rimandata da suo padre.

Nel frattempo, Jalaluddin, sempre più innamorato della sua moglie testarda e forte, inizia a approfondire le condizioni reali del suo popolo e si rende conto delle difficoltà che essi affrontano. Decide di non accettare le condizioni imposte dai preti musulmani e emana nuove leggi più tolleranti verso le altre religioni. Il popolo lo proclama, Akbar, il grande.

Alla fine Jalaluddin Akbar capisce l’inganno e torna da lei per farsi perdonare.

Commenti: E’ un film che merita di essere visto al cinema per apprezzare la grandiosità delle scene. Allo stesso momento, penso che mi piacerebbe avere il DVD di questo film quando uscirà per guardare con più attenzione le scenografie, i palazzi sontuosi, i gioielli e i vestiti dell’epoca ricreati per il film, ecc.

Ci sono molto scene del film che mi sono piaciute, ma nell’insieme penso che sia un film troppo lungo e la durata poteva essere ridotto un po’. Nella vita l’imperatore Akbar aveva proseguito sulla strada dell’ecumenismo e aveva introdotto una nuova religione “Deene Ilahi” (letteralmente ‘il credo del mondo’) che metteva insieme elementi dell’induismo con elementi dell’islam, e aveva bandito i preti musulmani conservatori dal palazzo. Il film non parla di questo ma affronta la vita iniziale di Akbar per far capire lo sviluppo della sua personalità e il consolidamento della dinastia Mughal in India.

I due personaggi principali del film sono molto bravi, soprattutto Hrithik Roshan nella parte dell’imperatore. Nel film lui parla in urdu classico, la lingua indiana influenzata dal persiano e dall’arabo, mentre la principessa del Rajasthan parla un hindi semplice. Purtroppo questo genere di dettagli non possono essere apprezzati nelle versioni con i sottotitoli o doppiati.

La mia scena preferita del film è quel del matrimonio, quando un gruppo di monaci sufi canta per l’imperatore seduto al aperto nel deserto. Insieme ai monaci, anche l’imperatore si perde in trance mistica e si alza per ruotare insieme ai darvesci. La canzone che accompagna questa scena, “khawagia mere khawagia, dil mein samagia” (signore mio signore, vieni nel mio cuore) ha un suono semplice che va diritto al cuore.



Tra le scene che sono rimaste con me dopo la fine del film vi sono le seguenti – il giovane re cerca di domare un elefante arrabbiato, la regina è umiliata dalla governante quando le chiede di assaggiare il cibo che ha preparato con le sue mani per l’imperatore. Le scene dove i due protagonisti principali, Hrithik e Aishvarya, sono insieme, sono le parti più belle del film. Altre scene come quelle delle guerre e delle lotte, anche se imponenti e maestose, annoiano un po’.

Tra gli altri attori che lasciano una forte impronta nel film vi sono Ila Arun nel ruolo della governante dell’imperatore e Sonu Sood nel ruolo del cugino della principessa. (nella foto sotto, lo scontro tra la governante e la regina)



Comunque, è un film che merita di essere visto.

martedì 4 marzo 2008

Vanaja: sogno di una bambina

“Vanaja” (regista Rajnesh Dolmapalli) era il film di inaugurazione del nuovo festival del cinema dei giovani di Bologna, lo Youngabout Festival, iniziato ieri (3 marzo 2008).

Avevo visto la pubblicità di questo film più di un anno fa su alcuni siti di internet indiani. La pubblicità aveva un’immagine molto bella e colorata, una ragazza insieme ad un elefante, e diceva che il film aveva vinto riconoscimenti internazionali molto importanti. Durante la mia visita in India avevo cercato il film ma senza successo. Comunque, avevo pensato che la strategia di marketing scelto dal film era buona, e che soltanto tramite la pubblicità online, era riuscita a creare curiosità in persone come me.



Poi quando ho visto il programma del festival Young About, avevo subito deciso che non l’avrei lasciato sfuggire quest’opportunità. Ieri mattina per guardare il film al cinema Odeon c’erano poche persone, a parte tre-quattro classi di scuole medie insieme ai loro insegnanti. Magari il festival attirerà più persone alla sera.

Mentre il film ha delle belle immagini, e un’attrice protagonista molto accattivante, nell’insieme sono rimasto un po’ deluso dal film. L’aspetto più problematico del film è la sua debole sceneggiatura, comunque procediamo in ordine per parlare del film.

Trama: Vanaja è la figlia quindicenne di un pescatore Somayya dell’Andhra Pradesh. La famiglia ha problemi finanziari e il padre di Vanaja deve dei soldi a Ram Babu il postino locale. Il padre di Vanaja le suggerisce di lasciare la scuola e di cercarsi un lavoro. Vanaja vuole lavorare da Ramadevi, la vecchia danzatrice di Kuchipudi e la padrona di una ricca famiglia locale.



Ramadevi accetta di insegnare le antiche arti di danza e musica a Vanaja, e la ragazza si rivela una studentessa brava e attenta. Le prime performance della ragazza sul palcoscenico del villaggio riscuotono molto successo.

Ram Babu il postino è innamorato di Vanaja, ma ciò non lo ferma a portare via la barca del suo padre Somayya, perché quest ultimo è sempre ubriaco e non riesce a rinsaldare il suo debito. Somayya usa i soldi guadagnati dalla figlia per comprarsi da bere.

In tanto il figlio di Ramadevi, Shekhar ritorna dall’America. Vanaja è attratta da lui e un giorno lo vede nudo in bagno. Lui vuole candidarsi alle elezioni locali.

Vanaja pensa ad un piano per vendicarsi di Ram Babu per aver portato via la barca di suo padre, ma mentre cerca di sedurrlo viene scoperta e sgridata per essersi comportata come una ragazza facile. Anche Shekhar, il figlio della padrona la guarda con malizia e resta male quando davanti a tutti, lei fa notare che lui non sa fare bene i conti. Lui cerca vendetta e una sera riesce a violentarla.

A parte una vecchia domestica della padrona, Vanaja non parla con nessuno della violenza subita, ma poi rimane in cinta. La padrona prima sgrida il figlio e poi, le suggerisce di abortire. Vanaja scappa dal padre e poi con aiuto di amici, va a vivere nella foresta nell’attesa della nascita. Vanja sogna in qualche modo di vendicarsi, mentre suo padre pensa di vendere il figlio neonato.



La padrona accetta il bambino, di allevarlo in casa sua, ma non può accettare Vanaja come sposa del suo figlio perché è di una casta bassa. Vanaja torna in casa dalla padrona per poter stare vicino al proprio figlio, ma è sempre piena di rancore e vuole vendetta da Shekhar, il quale vorrebbe trattarla come amante. Quando muore il padre, Vanaja sa che se resterà in quella casa diventerà come la vecchia domestica e decide di andare via.

Commenti: Dal punto di vista visivo, il film è molto bello. Alcune scene hanno una luce meravigliosa. Mamta Bhukya nel ruolo di Vanaja è naturale, vulnerabile e affascinante. Anche Urmila Dammannagari nel ruolo della padrona è credibile. Tutti gli attori del film sono persone prese dai villaggi e non sono attori professionisti. Ciò da certa ruvidezza piacevole al film.

Ma la sceneggiatura del film è molto debole, sembra un film amatoriale fatto per l’occidente pensando ai festival di cinema. Sembra impossibile che il film abbia raccolto così tanti premi internazionali con una storia che è così chiaramente artificiale.

La prima scena del film, il piccolo gruppo di danzatori cantanti che presentano una scena di Mahabharata, è bella perché i danzatori sono vecchi e stonati ma presentano la storia dei cinque fratelli Pandava e la loro sposa Draupadi con molta convinzione. Ma usare questa danza per giustificare la passione di Vanaja (letteralmente il nome significa “figlia della foresta”) per la danza kuchipudi sembra un po’ forzato.

Tra gli attori è Ramchandraih Marikanti nel ruolo di Somayya, il padre di Vanaja, l’unica nota falsa, un po’ troppo melodrammatico.

Ram Babu (Krishna Garlapati) come postino innamorato di Vanaja non sembra una persona che avrà i soldi da prestare agli altri. Comunque lui recita la sua parte con convinzione. Karan Singh, nel ruolo di Shekhar è il bello del film, ma è poco convincente.



Le scene della danza sono molto belle ma sono state riprese da una angolatura diretta senza variazioni e con pochi primi piani, il che può limitare il loro impatto.

La questione delle caste è il punto centrale del film, intorno al quale ruotano diverse scene, ma è trattato nel film in maniera così poco credibile. Nel film, Vanaja, una ragazza di bassa casta può lavorare nella cucina della signora, può toccare il cibo con le proprie mani, può entrare nella sala della preghiera, tutti comportamenti non permessi alle persone delle basse caste.

Inoltre, il bramino, padre della migliore amica di Vanaja, è anche amico del padre di Vanaja e li aiuta a nascondersi nella foresta. Anche questa amicizia tra un bramino e un pescatore di bassa casta non è logica, se non per un uso strumentale nel film.

Né il comportamento della signora di casa dopo la scoperta che il figlio ha violentato la ragazza e la sua decisione di accettare il figlio nato dalla violenza sessuale, sembrano poco credibili. Le discussioni verso la fine del film riguardo al colore scuro del bambino sono altrettanto poco credibili. In India, le basse caste sono spesso caratterizzate da colore della pelle più scura perciò, parlare del colore scuro del bambino poteva avere un senso, ma né Vanaja né suo padre hanno la pelle scura, anzi è la padrona di casa che ha la pelle più scura.

Penso che se le persone hanno una conoscenza superficiale dell’India e hanno sentito parlare del problema delle caste, il film può sembrare autentico e coraggioso perché affrontata diversi temi importanti. Tuttavia, se hai una conoscenza maggiore della cultura indiana, il film sembra artificiale che fa un uso strumentale delle questioni come le caste, oppressione dei poveri, le discriminazioni contro le donne, ecc.

martedì 26 febbraio 2008

Sesso e Preghiera

Avevo sentito parlare molto dell'arte erotica di Khujaraho e Konark, ma non avevo avuto l'opportunità di visitarli. Mentre ero a Bhuvaneshwar, quando mio collega, dott. Mani ha proposto di partire presto alla mattina per poter visitare il tempio di Konark, l'ho accolto con gioia.

La prima vista delle rovine del tempio al dio Sole, costruito intorno al 1250 d.c., avvolto da una leggera nebbia era incredebile.




Come spesse succede, vi erano molti malati di lebbra all'entrata del tempio. Parlai con uno di loro e controllai la sua mano e gli consigliai di farlo operare presso il centro di chirurgia ricostruttiva della lebbra, ma lui non era convinto. Diceva che avere la mano giusta avrebbe influito negativamente sulla sua capacità di raccogliere le offerte dei pellegrini! Gli dissi che aveva perso le dita dell'altra mano, aveva ulcere ai piedi e questi erano sufficienti per la sua professione di mendicante, ma aveva una mano ancora buona e sarebbe stato stato saggio cercare di mantenerla buona. Scosse la testa e mi disse che avrebbe pensato al mio consiglio.







Pellegrini di tutti tipi giravo intorno, la maggior parte di loro sembravano persone provenienti dai villaggi intorno e dalle piccole città del Bengala. Probabilmente si fermavano a Konark sulla strada per il tempio di Jaggan Nath a Puri.














Mentre le bellissime statue nella parte iniziale del tempio sono innocue quelle sulle pareti del tempio principale non lasciano dubbi sulla loro natura sessuale. Intorno all'entrata principale del principale edificio del tempio, vi sono 4 statue erotiche giganti con diversi pannelli più piccoli con scene di sesso intorno ad esse.









Sulle pareti laterali del tempio, le statue sono organizzate in tre livelli separati. Le statue più basse, mostrano scene non erotiche con i vari dei e animali mitici mentre il livello più alto, continene le statue erotiche. Le statue sono molto esplicite. Secondo il dott. Mani, questa organizzazione di statue è stato fatto per proteggere i pellegrini bambini, i quali guardano le scene più innocue.









Le scene di sesso mostrano le diverse variazioni sul tema descritte nei testi di Kamasutra, compreso il sesso orale. Le statue sono molto espressive, quasi tutte con espressioni di gioia e di piacere.

Quasi tutte le statue degli uomini hanno degli organi sessuali enormi gonfiati dall'eccitazione. Probabilmente i pellegrini maschi tornavano a casa con un senso di inferiorità!




Konark non è soltanto erotismo ma è una struttura incredibilmente bella. Sono rimasto affascinato dalle statue del dio sole come quella nell'immagine sotto, seduto su un cavallo.




L'intero tempio è costruito nella forma di un carro enorme con 12 ruote che simboleggiano i 12 mesi dell'anno, trainato da 7 cavalli (forse simboleggiano i 7 gironi della settimana? Non sono sicuro se il calendario indiano aveva il concetto della settimana).









Pensando al senso di pudore e vergongna normalmente associato a tutto quello riguarda il sesso, pensavo all'impatto di queste statue così esplicite sulle donne e uomini provenienti dalle zone rurali o dalle piccole città. Vi erano anche alcuni gruppi di studenti in gita scolastica al tempio. Ma poi ho notato che a parte qualche raro uomo, la maggior parte dei pellegrini non alza la testa per guardare le statue erotiche o se lo fa, lo fa di sfuggito per un attimo.















Perché gli antichi popoli del tredicessimo secolo dell'India avevano deciso di costruire templi erotici, mescolando insieme sesso e preghiera? Era un periodo nella storia indiana, quando le persone erano riuscite a superare gli antichi tabù legati al sesso? Le poesie indiane scritte nel shringar ras (colore della bellezza) possono essere molto esplicite riguardo il sesso. Erano le persone che già pregavano agli organi sessuali (shivalinga e Yoni) del dio Shiva e della dea Parvati? Questi templi erano parte della via tantrik alla ricerca di Dio? Non so le risposte a queste domande.




Pensavo che le sculture di Konark sono un'inno al sesso eterosessuale. Avevo visto qualche statua con tre figure, ma erano sempre un uomo con due donne e non avevo notato nessuna statua con due donne o due uomini in atteggiamenti omosessuali. Ma mentre sceglievo le foto per questo blog, ho notato un pannello un po' particolare che ha tre figure. La figura di destra, oltre ad avere un seno femminile sembra che ha anche un pene turgido. Forse, ai tempi di Konark, erano più tolleranti verso altre variazioni della sessualità umana?

sabato 23 febbraio 2008

La spiaggia di Konark - diario del viaggio

5 febbraio 2008

Siamo partiti da Bhuvaneshwar alle 5 di mattina e siamo arrivati alla spiaggia di Konark verso le 06,00. Il cielo era coperto e iniziava a schiarirsi. Abbiamo preso un thé caldo in questo negozietto.







Mentre bevevamo il thé all'improvviso ho visto le persone sedute vicino alla spiaggia. Pensavo che dovevamo vedere l'alba al tempio di Konark ma non avevo idea del perché della folla seduta vicino alla spiaggia.


Dott. Pati ha spiegato. Secondo il calendario indiano, inizio di febbraio è il mese di magh e in questo mese bisogna pregare al dio sole alla mattina. I contadini venivano dai villaggi ogni mattina per questa preghiera e erano in attesa del sole. In tanto file di contadini continuavano ad arrivare alla spiaggia.








Sulla spiaggia, un gruppo di donne di qualche villaggio conduceva qualche rito di preghiera particolare. Ero affascinato da loro ma avevo paura di avvicinarmi perché era un gruppo di sole donne.











Alla fine un preste si fermo vicino a loro per un attimo per la benedizione. Nel frattempo, le persone aspettavano con ansia di vedere il sole nascosto dietro le nuvole. I bimbi giocavano. Qualche raro bimbo si avventurava nell'acqua.











All'improvviso un gruppo seduto vicino si alzo, tutto eccitato. Avevano visto il sole. Era un sole pallido, appena appena visibile per pochi momenti. Loro alzaranno le proprie mani nelle gesta della preghiera. Ero commosso dalla semplicità della loro fede.











Fu una mattina bellissima, indimenticabile per la gioia e semplicità dei contadini nel momento della loro preghiera.

venerdì 22 febbraio 2008

India: Pagine del diario di viaggio (1)

31 gennaio 2008, Hyderabad

Siamo alloggiati in un hotel di Hitech city, la nuova parte della città. Anche se la chiamano Hi Tech (alta tecnologia), tutto sembra uguale al resto della città – negozi, folle infinite, rumore, odori, betel, clacson, traffico caotico, ecc. Sparsi in questa torrente della vita vi sono isole di alta tecnologia, sedi delle multinazionali come i Cybertowers, fortezze moderne sorvegliate da guardie armate ai cancelli, dove le strade sono larghe, pulite e deserte, l’erba verde e tagliata, e poi tanto vetro e acciaio.

Secondo Laltu, il mio amico scrittore e poeta che insegna all’università di Hyderabad, vi è un’altra differenza importante tra l’Hitech city e il resto della città di Hyderabad, ciò è, tutto costa cinque volte di più. Laltu è intenso e idealista. Il pomeriggio passato con lui è stato un concentrato denso di piacere. Ho registrato alcune sue poesie nella sua voce. Lui mi ha dato il suo libro dei racconti e una raccolta delle sue poesie.

E’ molto particolare la sensazione di essere in India, che non so come descrivere. Riguarda le persone. Ti accolgono. E’ come essere circondati da una massa infinita di accoglienza. E’ una sensazione molto piacevole che colora tutte le altre esperienze. E’ qualcosa alla quale ti abitui dopo un po’, e dopo non te ne accorgi più. Mi piace uscire fuori sulla strada per sentire questa sensazione.

Cerco un ristorante del sud India intorno all’hotel. Voglio mangiare una dosa, foglia croccante di pasta di riso, con delle patate speziate. A Bologna sono stati aperti tanti ristoranti indiani, ma la maggior parte di loro non sono gestiti da indiani o non hanno cuochi indiani, e in ogni caso, non conosco nessun posto dove si può mangiare una dosa in Italia. I nostri tentativi di preparare queste dosa a casa a Bologna, fin’ora non sono andati a buon fine.

Il congresso sulla lebbra si tiene al nuovo centro internazionale dei congressi, una delle fortezze della alta tecnologia costruite da poco, difficile da arrivarci. Poi, non lasciano che le umili autorisciò entrino dentro ai loro cancelli. Si può entrare solo con la macchina. E’ una rottura di palle da non credere arrivarci tutti i giorni con i mezzi pubblici. Per aiutarci, hanno organizzato dei bus charter che ci prelevano dagli hotel e ci riaccompagnano in dietro la sera. Per fortuna, le discussioni sono molto interessanti. Passo delle ore a andare in giro, ascoltare relazioni, discutere animatamente con le vecchie e le nuove conoscenze. Ogni tanto quando qualcuno è noioso, sonnecchio.

Infatti, mi sembra di avere sempre sonno. Tutto il giorno penso al letto e poi, la sera, appena mi ci infilo dentro, il sonno scompare. Sono costretto a guardare cazzate alla televisione che sembra impazzito. Ormai, la liberalizzazione della televisione indiana è completa e vi sono almeno 10 canali che trasmettono notizie 24 ore su 24, ognuno di loro disperato per accaparrare l’audience e per cui ogni notizia è annunciata come fosse l’attacco alle torri gemelle e vanno avanti con delle cretinate incredibili per delle ore. Verso la mattina, quando inizio a dormire bene, è ora di alzarsi per non perdere il bus che ci porta al centro congressi.

A volte penso che se tu viaggi sempre dentro le macchine con l’aria condizionata, esci dal tuo appartamento che si trova dentro un centro residenziale circondato dalle mura e con la guardia al cancello, poi entri dentro il tuo centro di alta tecnologia o l’ufficio di una multinazionale, anche questa dentro un centro circondato dalle mura e con delle guardie al cancello, sei veramente in India o sei dentro un altro paese? Vedi diversamente la situazione dei poveri e degli esclusi? In qualche modo sei un indiano meno autentico, un po’ meno indiano? Ci penso a queste domande, quando G viene a prendermi all’hotel. Lui è figlio di mia zia, lavora per una grossa multinazionale, viaggia spesso all’estero, vive in un centro residenziale dei ricchi. Il suo mondo sembra troppo perfetto e isolato dal mondo caotico che ci circonda. So che è un’illusione, questa sua distanza dall’altra India. Lontano dal mondo delle multinazionali conosco la casa a Delhi, da dove lui è uscito e dove torna ogni tanto a trovare sua madre che vive in quell’altra India. Può sembrare isolato dall’India dei poveri, ma invece se guardi dietro la facciata, lui conosce bene quell’India, troppo bene. Ma tutti gli altri come lui, loro conoscono quell'altra India?

***

2 febbraio 2008, Hyderabad

Le mie prime memorie di questa città sono un po’ sfuocate. Penso che ero venuto qui per la prima volta nel 1959 o nel 1960. Mi ricordo vagamente il viaggio in treno, di aver passato la stazione di Bhopal, e di aver dormito nella cuccetta di sopra. Eravamo in tre, io, Pinky e mia mamma. Andavamo a trovare papà che a quell’epoca lavorava a Hyderabad. Mi ricordo vagamente la casa nella vecchia città vicino a Char Minar, dove giocavamo nel cortile, cantavo “Madhuban mein radhika nacchi re” e Pinky ballava. Quella casa dove fuori c’era una piccola fontana con dei pesci. Una volta ero caduto dentro la fontana e avevo avuto molta paura di essere mangiato vivo dai pesci. Vicino c’erano le fabbriche che producevano i braccialetti di vetro, per i quali Hyderabad era famosa. Le passeggiate lungo l’Hussein Sagar, il lago di Hyderabad. Ho il ricordo di una sera, era il mio compleanno e pioveva, ma ero contento del gioco che mi avevano comprato, un giocattolo con la chiavetta che poteva aprire un piccolo ombrello che girava con la musica.

Avevo nostalgia di quei giorni. E speravo di poter cercare quella casa. Così sono uscito dal congresso per andare alla vecchia città. L’antico ospedale Unani, la moschea Mecca, il monumento di Char Minar con le sue quattro torri, le piccole strade dove si vendono i braccialetti colorati di vetro, per ore ho girato in quella zona. Non sono riuscito a identificare la strada dove ero stato da bambino.

Ho parlato con una signora che chiedeva monete ai passanti. Si chiama Salma e proviene da Sholapur. Porta il velo nero delle donne musulmane. “Cosa devo fare? Non riesco a lasciarmi morire dalla fame. Sono vecchia e vedova. I figli sono sposati e sistemati, non voglio essere un peso per loro”, il misto di vergogna e impotenza nei suoi occhi, mi ha fatto vergognare della mia invadenza.

Comunque, non riesco a farne meno di parlare con le persone, attacco bottone con tutti. Con i due ragazzi che vendono fazzoletti all’angolo della strada. Quello grande si chiama Abdul, è un musulmano e vuole essere fotografato, sta diritto orgoglioso, quando gli scatto la foto. Il ragazzino piccolo si chiama Dev Raj, è un indù e sta seduto con un sorriso imbarazzato. “Come è che non vai a scuola?” gli chiedo e lui non mi risponde, soltanto nega con la testa.

Chiacchiero anche con l’anziano custode del piccolo santuario del Pir all’interno di Char Minar. Si chiama Abdel Siddiq e fa custode da 41 anni. Prima di lui, il suo zio, fratello di sua mamma, era il custode. Parla un urdu letterario con i fiocchi, sembra un imperatore Mugul uscito da un film, ed è un gusto sentirgli parlare. “E’ originario di Delhi? Grande città la Delhi. Benvenuto alla nostra umile dimora. Quale impegno porta il nobile Signore a visitare questa polverosa Hyderabad?”

Alla sera ho preso un autorisciò per tornare all’hotel. Il mio guidatore era Gurpreet Singh, un giovane ragazzo sikh e durante il viaggio di ritorno, ho chiacchierato con lui. I suoi bis nonni erano arrivati a Hyderabad più di cent anni fa e lui si sente parte di questa città. Ha 29 anni, è laureato in scienze politiche, da 6 anni è sposato, ha due figli e per tre anni ha lavorato in una banca. “Non si guadagna molto con la banca, meglio avere questo autorisciò. Ho avuto un prestito dalla banca per comprarlo e l’ho già ripagato tutto.” Parliamo dei suoi genitori, dei suoi figli e della sua moglie. “No, lei non lavora. Gli uomini di Hyderabad non possono mandare le mogli a lavorare, sarebbe contro la nostra cultura. Lei deve prendere cura della casa e di miei genitori. Lo so che le donne di oggi vogliono lavorare, ma io sono all’antica ..”




















giovedì 21 febbraio 2008

La violenza nelle parole

Mi sembra chiaro che l’articolo di Efraim Medina Reyes “Il sesso forte” (Internazionale 726) sia stato scritto per scandalizzare. Usa termini come fica, gang bang, stupro e non cerca in nessun modo di misurare le parole. Perché stupirsi? Non diciamo parolacce in altri contesti? A disturbarmi è soprattutto la corrente di violenza sottintesa. Tanto più che il suo articolo parla della violenza nel mondo e, in particolare, di quella contro le donne. Ho avuto perciò la sensazione che il suo discorso avesse un senso, ma che il modo in cui era stato scritto significasse l’opposto. Rispetto al passato siamo più tolleranti verso le parolacce, anche quando le troviamo nei libri e nelle riviste. In Italia vengono usate nel linguaggio di tutti i giorni e non sono più considerate un tabù. I genitori le usano con i figli e i figli le dicono davanti ai genitori. In un certo senso ne capisco il bisogno: per molto tempo abbiamo nascosto i nostri corpi e la sessualità dietro ad imbarazzi e silenzi. Mi sembra giusto far crollare quelle barriere che ci impediscono di parlare più apertamente di questa parte delle nostre vite. Non credo, però, che sia giusto farlo con il linguaggio di Medina Reyes perché ci porta a pensare ad alcune parti del nostro corpo come a degli oggetti. O alla sessualità come a una meccanica di penetrazioni e movimenti.

Nota: Lettera uscita sul numero 731 di Internazionale

sabato 26 gennaio 2008

Bilancio finale

Domani partirò per l’India. Penso che sia il momento giusto per fare un bilancio dell’esperienza di Torino. Ero tornato da Torino con una testa in subbuglio, e avevo bisogno di un po’ di tempo per calmarmi e per lasciar sedimentare i pensieri. Ora penso di aver digerito le esperienze e posso tentare di farne un bilancio finale.

Alessandro del Premio Grinzane mi aveva contattato verso il 20 novembre 2007. Zahoor gli aveva dato il mio nome. Zahoor è originario del Kashmir. Lui insieme alla sua moglie, Renata, ha scritto il libro Storie dell’India, pubblicato da Edizioni Progetto Cultura di Roma. E’ un libro molto particolare. Quando l’avevo letto, mi aveva fatto pensare alla mia vita da bambino negli anni sessanta. I racconti di questo libro sono un po’ retro, ciò è scritti in uno stile che somiglia alle storie dei libri popolari di quelli anni, quelli che allora erano trattati come libri “pulp fiction”. Rispecchiavano la semplicità di quei giorni, quando le scelte erano limitate, non c’era corrente elettrica in casa e la luce delle lanterne scandiva le ore serali.

Penso che Alessandro aveva contattato Zahoor per parlargli degli scrittori indiani e Zahoor gli aveva dato il mio indirizzo di email. Dalla prima volta che avevo parlato con Alessandro, subito avevo cercato di promuovere l’idea che la letteratura indiana va molto oltre i pochi scrittori conosciuti in occidente, quelli che scrivono in inglese. Non solo, ma che vi sono dei dibattiti importanti tra gli scrittori indiani riguardo la rappresentanza dei gruppi emarginati, come gli scrittori dalit, e le domande che scaturiscono da questi dibattiti, per esempio sulla definizione della letteratura.

Dall’India, i libri sulla religione, sulla spiritualità e sui temi esotici come il kamasutra, la meditazione e lo yoga sono stati tradotti e hanno trovato larga diffusione in occidente. I testi considerati i capolavori della scrittura antica indiana come gli scritti di Kalidasa nel 4° secolo d.c. sono completamente sconosciuti in Italia e in Europa, se non tra pochi studiosi nelle università. Gli innumerevoli scrittori indiani del ventesimo secolo, i quali hanno scelto di esprimersi in lingua indiana sono ugualmente sconosciuti in occidente. Scrittori prolifici e popolari come Bimal Mitra, Asha Purna Devi, Acharya Chatur Sen, Rangey Raghav, Munshi Prem Chand, ognuno dei quali ha scritto decine di libri importanti non sono mai stati tradotti in nessuna lingua europea. Poeti più importanti della letteratura hindi come Mahadevi Varma, Nirala, Muktibodh, Raghuvir Sahay, hanno subito lo stesso destino. Tagore, l’unico premio nobel indiano per la letteratura, riuscì ad avere il riconoscimento grazie alla traduzione in inglese della sua opera Gitanjali, infatti, la citazione alla consegna del premio recitava, “.. per i suoi versi profondamente sensibili, freschi e belli che con consumata abilità lui ha scritto il suo pensiero poetico, esprimendosi in inglese, per diventare parte della letteratura occidentale …”

Il più importante premio letterario nazionale dell’India, Rashtriya Sahitya Accademy Awards, è un riconoscimento dato agli scrittori più importanti del paese. Dei vincitori del premio negli ultimi cinquant’anni, soltanto uno di questi autori, ha avuto i suoi libri tradotti in italiano.

Vi sono altri spazi all’interno della società indiana che non sono rappresentati nella letteratura indiana. E’ indubbio che negli ultimi cento anni della letteratura indiana le voci dominanti sono quelle delle persone appartenenti alle caste più alte, delle persone che rappresentano le classi più alte e fino a un certo punto, le classi medio borghesi. Questo è vero anche per gli scrittori nelle lingue indiane. C’è invece l’India delle caste basse, i dalit (letteralmente i calpestati), l’India delle minoranze religiose, etniche e sociali, l’India dei gruppi poveri e emarginati che non avevano e per molti versi continuano a non avere una voce nel mondo letterario indiano. All’interno di questi gruppi le voci delle donne rimangono ancora più nascoste. Soltanto negli ultimi decenni le voci dei dalit hanno assunto un valore importante nel mondo della letteratura. Tra i gruppi emarginati vorrei sottolineare i gruppi omosessuali, gay e lesbiche, che sono completamente assenti dallo scenario letterario per i forti tabù sociali e culturali.

Alessandro aveva accolto quasi subito questa mia tesi e ha dato la possibilità a due scrittori che scrivono in Hindi, Uday Prakash e Bhagwan Dass Morwal, di partecipare al convegno. Non è molto ma è un inizio. Dopo il convegno, ho già avuto qualche contatto con le case editrici interessati alla pubblicazione di scrittori indiani ancora sconosciuti in Italia.

La mia partecipazione al convegno di Torino ha dato molta visibilità anche a me. Qualcuno mi ha chiesto di scrivere per qualche rivista. Qualcuno si è mostrato interessato alla traduzione in italiano di alcuni miei racconti scritti in Hindi. Molte persone mi hanno scritto per dire che avevano apprezzato il mio intervento. Tutto questo è molto gratificante ed vorrei impegnarmi per fare uno sforzo in più per scrivere non soltanto in hindi ma anche in italiano.

Dall’altra parte, il convegno di Torino mi ha aiutato a capire me stesso meglio e che cosa voglio dalla mia vita. Anzitutto mi ha fatto capire che la mia prima passione resterà il mio lavoro con AIFO, il lavoro di medico della lebbra e che la scrittura sarà in seconda fila, sempre una passione per il mio tempo libero.

Avevo sentito che qualcuno ha scritto un commento critico su il Manifesto riguardo la riunione di Torino e subito avevo immaginato che avranno criticato la scelta di avere quasi tutti gli scrittori come rappresentanti dell’India ricca e anglofona e pochi rappresentanti delle altre letterature indiane. Ieri finalmente sono riuscito a leggere questo articolo. E’ scritto da una persona che si firma, m.t.c. e l’articolo mi ha sorpreso un po’. m.t.c. ha ragione quando scrive che sono stato invitato a Torino soltanto perché ero di Bologna. Ma per il resto non ho capito la sua critica. Si lamenta che non vi erano nomi famosi, i personaggi importanti della scrittura indiana! Sono contento che al premio Grinzane le persone la pensavano diversamente da m.t.c.

Penso che era bello il miscuglio di nomi affermati come Shashi Tharoor, M. J. Akbar e Tarun Tejpal; i giovani talenti come Nirpal Singh, Lavanya Shanker e Altaf Tyrewala e che vi erano 3 rappresentanti della scrittura nelle lingue indiane, Gayathri Murthy, Uday Prakash e Bhagwan Dass!

L’unica critica che posso fare è che erano troppe le persone provenienti dalle grandi metropoli, scrittori che appartengono alla classe medio alta, che hanno beneficiato dalla crescita economica dell’India degli ultimi anni. Mentre gli scrittori rappresentanti dell’altra India, quella che è sempre povera e emarginata, erano pochi. Ma devo riconoscere che almeno c’erano, perché quasi sempre non ci sono, perché sono molto spesso dimenticati. Grazie Alessandro.

domenica 20 gennaio 2008

Il Mahatma e il Mercato

Sono tornato da Torino, dopo 3 giorni intensi. Penso di aver fatto un'indigestione degli scrittori. Era così bello incontrare diversi scrittori. Quando leggi un autore, ne crei un'immagine interna e poi, quando hai occasione di incontrare la persona, scopri le differenze tra il personaggio della tua creazione e la persona. Comunque, per il momento, ho una tempesta di pensieri nella testa e bisogna che aspetti che si calmi per capire il significato di queste esperienze e eventualmente, di parlarne. Vorrei dire soltanto che oltre agli scrittori indiani, il viaggio a Torino è stato bello anche per incontrare autori come Tahar Ben Jalloun e Luis Sepulveda.

E, vi presento qui un articolo, pubblicato in parte sul quotidiano, La Stampa del 18 gennaio 2008, "Il Mahatma e il Mercato".
Le foto sbiadite del passato

Ero piccolo. Forse avevo cinque anni. Era la prima volta che visitavo il museo memoriale di Mahatma Gandhi, vicino a Rajghat dove lui fu cremato nel 1948, e dove sorge il suo samadhi, il luogo dove è divenuto tutt’uno con il creatore.

In quegli anni, lui era ancora una persona. Qualcuno che aveva vissuto come le persone normali. La storia dell’India indipendente non era ancora diventata la storia. Diversi personaggi di quella storia erano ancora delle persone in carne e ossa. Avevo visto Pandit Nehru, il primo ministro dell’India alla scuola, al quale avevo consegnato una rosa di benvenuto.

La mamma parlava di loro qualche volta. Raccontava del suo lavoro come segretaria di Maulana Abdul Kalam Azaad, uno dei leader musulmani moderati, membri del partito del congresso, i quali avevano deciso di restare in India, rifiutando l’idea di una patria basata sulla religione. Lui era diventato il ministro dell’educazione dell’India indipendente.

Lei parlava anche di quella casa dove abitavamo, che apparteneva ad un ricco musulmano haji, commerciante di rifornimenti ospedalieri, il quale aveva scelto di sfuggire in Pakistan con la sua famiglia. Quella casa dove le finestre della zenana, la parte della casa riservata alle donne, con schermi di legno finemente scolpiti permettevano alle donne della casa di guardare fuori senza essere viste. Parlava dei giorni sanguinosi della divisione dell’India e la pazzia omicida che regnava nel cuore degli uomini. Di come un giorno lei era entrata in una casa abbandonata per salvare una donna musulmana da un gruppo di uomini indù che la volevano violentare e del certificato di apprezzamento che aveva ricevuto dal Pandit Nehru per questo atto di coraggio.

Lei parlava anche di Bapu. Era così che chiamava il Mahatma. Bapu, papà. Parlava delle sedute a Birla Bhavan dove andava a ascoltare Gandhi e a cantare insieme a tutti gli altri le bhajan, le preghiere favorite del suo Bapu. Parlava di quel giorno quando Nathuram Godse aveva sparato e ucciso il suo Bapu. Parlava della sua preghiera favorita, Vaishnav jan to tane kahiyeji pir parayi janni re, "E’ lui l’uomo di Dio, soltanto colui che cerca di capire il dolore altrui".

Il museo del memoriale di Mahatma Gandhi era una struttura semplice e spoglia dove erano esposte tutte le cose personali di Bapu. Il suo bastone per camminare. I suoi occhiali con la montatura rotonda. Quelli che erano caduti per terrà quando gli avevano sparato e che si vedono un po’ storti sull’erba, nella foto di quando li avevano trovati. I suoi libri, la sua carta e la sua penna, un foglio di carta dove sono scritte alcune righe. Non aveva una calligrafia molto bella, avevo pensato, il mio maestro di calligrafia alla scuola gli avrebbe fatto riscrivere tutto da capo!

Ma l’oggetto che aveva catturato la mia immaginazione era il suo dhoti, il panno di khaadi bianco, tessuto a mano, che lui portava quel giorno, con le macchie del suo sangue. Guardavo quelle macchie marroni con macabra curiosità. Per me, erano quelle macchie che lo rendevano una persona vera più di qualunque altra cosa.

Il 30 gennaio di ogni anno alle 11,00 suonavano le sirene per ricordare il padre della nazione, Mahatma Gandhi, per ricordare quel momento tremendo del suo assasinio. Dovevamo tutti alzarsi in piedi e stare in silenzio per due minuti finché suonavano le sirene un’altra volta. Per molti anni dopo quella visita al museo di Gandhi, in quei momenti di silenzio, pensavo a quelle macchie marroni di sangue.

Fra qualche giorno saranno passati sessanta anni da quel lontano 1948. Chissà se suoneranno le sirene alle 11,00 per ricordare l’uccisione di Bapu?

Oramai il mondo è cambiato. Non ci sono più quelle lezioni dell’antica arte di calligrafia di hindi. Ognuno di noi aveva la sua takhti, una tavola di legno per la scrittura. Si applicava uno strato di gesso bianco bagnato sul legno ogni mattina per avere la superficie bianca sulla quale scrivere con il pennarello di bambù che dovevi bagnare nell’inchiostro nero. Mercato, competizione, progresso, sviluppo, crescita e pragmatismo, sono queste le parole in voga oggi.

Il ritorno del Mahatma
Non si può dire che l’India abbia dimenticato il Mahatma. Le sue foto continuano a adornare le aule giudiziarie e gli uffici governativi. E’ sua la faccia sulle banconote da 500 rupie, quelle si usano spesso per le bustarelle e per i pagamenti in nero. Sono più facili da nascondere. Se qualcuno vi parla di Gandhi mentre cercate di sbrigare qualche servizio, è possibile che lo faccia per ricordarvi che aspetta la mancia.

Per le elezioni non servono più le foto di Mahatma Gandhi, bastano quelle di Indira Gandhi. Ormai esistono delle generazioni cresciute dopo la morte di Indira Gandhi che non conoscono chi era lei, è inutile parlare a loro di Mahatma. Si parla di Mahatma Gandhi il 2 ottobre, il giorno della sua nascita, e il 30 gennaio, il giorno del suo martirio. Poi quando serve, si può tirare fuori la sua bandiera per parlare della forza della verità, o della non violenza, per subito ripiegarla e metterla nel dimenticatoio.

In questo contesto generale, nel 2006-07 all’improvviso il Bollywood, il cinema di Bombay, ha ripescato il Bapu dal dimenticatoio, con due nuovi film che parlavano di lui e l’hanno presentato alle generazioni che non lo conoscevano.

Lage raho Munna Bhai (Continua fratello Munna), il primo film uscito nella seconda metà del 2006 è la storia di Munna, un malavitoso di Bombay, il quale incontra un giorno il fantasma di Gandhi in una biblioteca. Munna è disperato, ama una ragazza, ma non sa come vincere il suo cuore. Il fantasma di Gandhi promette di aiutarlo a patto che Munna segue ogni suo consiglio. Il film ha ottenuto grande successo della critica e del pubblico, e ha fatto capire ai giovani, in maniera semplicistica, i messaggi di Gandhi sulla non violenza, sul dialogo e sulla verità.

Gandhi My Father (Gandhi, mio padre), il secondo film uscito nel 2007 è la storia vera dei tormentati rapporti tra Gandhi padre e il suo primogenito Harilal. Il film basato sull’autobiografia di Harilal Gandhi, affronta temi poco conosciuti anche alle persone che pensano di conoscere la figura del Mahatma. Il film ha avuto l’approvazione della critica ma è stato ignorato dal pubblico.

Grazie a questi due film la figura di Gandhi è tornata all’attenzione pubblica. Il museo memoriale di Gandhi ha dichiarato che il numero dei visitatori giornalieri è cresciuto a 2000 persone al giorno. I giornali hanno iniziato nuovi fumetti che parlano di Gandhi. Una radio ha lanciato un quiz sulla sua vita e un’altra ha organizzato una serie di laboratori sul significato pratico del suo messaggio nel mondo di oggi. Un’associazione ha proposto un programma per visitare i villaggi per aiutare le persone bisognose, ottenendo adesione di molti giovani volontari. La vendita dei libri sulla sua vita ha avuto un’impennata.

Gandhi e il mercato

E’ stato riconosciuto il valore del marchio Gandhi per il mercato.

Nell’India che tocca vertiginosi livelli di crescita economica, il mercato è sempre più importante, e il mercato dice che Gandhi ha alto valore commerciale. Serve per vendere l’immagine della nuova India emergente. Questa nuova immagine dell’India non parla di povertà, di carestie, di bidonville. Invece ripesca i valori antichi, come quelli di spiritualità, di yoga, guru e meditazione, e li mette insieme alla tecnologia informatica, ai call centre, all’economia in forte espansione. Quante macchine, quanti cellulari, quanti schermi ultrapiatti, quante lavatrici, tutto da vendere, numeri che mandano in fibrillazione le multinazionali che annusano l’odore dei guadagni.

E dove è Mahatma Gandhi in questa nuova India? Come dice Salman Rushdie, “E’ diventato astratto, fuori dalla storia, postmoderno, non più un uomo del suo tempo ma un concetto libero, uno dei tanti simboli culturali, un’immagine che puoi prendere in prestito, usare, deformare, reinventare secondo il caso e il momento …”.

La sua immagine è ora protetta e venduta da agenzia americana CMG Worldwide, la stessa che detiene i diritti sulle immagini di altre icone come Einstein, James Dean e Marilyn Monroe. Il messaggero della semplicità, austerità e autosufficienza sta incatenato nella piazza pubblica e si chiamano gli acquirenti al mercato degli schiavi. Lui può essere usato da qualunque per vendere di tutto. Ditte come Telecom Italia e Apple americana l’hanno già fatto. Il suo torso nudo, il suo dhoti di ruvido khaadi bianco tessuto a mano, i suoi occhiali con la montatura rotonda, il suo sorriso sdentato, la sua voce con l’erre moscia, sono tutte in vendita.

Dal suo messaggio si sceglie quello che va bene per il mondo di oggi. Quello che non va, si può semplicemente scartare. “Il mondo ha sufficienti risorse per soddisfare i bisogni di tutti, ma non può soddisfare l’ingordigia ne anche di uno”, lui aveva detto ed è diventato un simbolo da usare per la cultura del consumismo, quella di sfruttare, usare e buttare. Ha perso lui la battaglia contro le forze del mercato.

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15 gennaio 2008

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