mercoledì 20 settembre 2006

Black Italians

E' uscito un libro, "Black Italians", gli italiani neri, storie degli atleti neri nelle squadre italiane. Una delle storie di questo libro riguarda Jacque Riparelli. Mi ricordo Jacque quando veniva in ufficio con il suo papà, Franco. Franco aveva trovato la sua moglie in Cameroun e per un po' di anni aveva lavorato in AIFO, poi era partito per un nostro progetto in Mali. Franco mi aveva insegnato a lavorare con il computer, era appassionato di informatica.

Ultima volta che incontrai Franco quando aspettavamo lo sblocco di un progetto finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano, per la quale doveva ripartire anche Franco. Lui non poteva aspettare, doveva mantenere la famiglia, anche perché nel frattempo era arrivata anche la Katia, sorellina di Jacque e aveva deciso di partire per il Mali con una ditta di costruzioni. "Appena il progetto si sblocca tornerò in Italia", aveva detto. Invece, dopo qualche mese morì in un incidente stradale a Bamako.

Oggi Jaque è un'atleta velocista centometrista e racconta la sua storia in questo libro, "Ho iniziato a fare sport quando è morto mio papà. All'epoca non me ne sono reso conto, ma per me lo sport è stato una valvola di sfogo… quando ho indossato la mia prima maglia azzurra, è stata una cosa indescrivibile, perché in quel momento hai l'onore di rappresentare l'Italia." Parlando di razzissimo, lui dice, "..anche a me capita di andare in un ufficio e la prima cosa che mi chiedono è se ho il permesso di soggiorno. Alla gente non viene in mente da subito che io possa essere italiano… Bisogna cambiare la gente e fargli capire che esiste anche l'italiano di colore."
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E' arrivato un altro invito dal comune di Bologna. E' per una serata sulla società multiculturale. L'ospite d'onore è una persona che viene dalla Canada e poi, c'è una lista lunghissima di altri relatori, ma non c'è nessun nome straniero tra questi.

Già qualche mese era arrivata la comunicazione sulla creazione di un comitato per le attività a favore delle associazioni di emigrati e anche in quel comitato, non vi era nessun nome straniero.

Penso che sicuramente sarà bello ascoltare gli illustri relatori ma in questa grande Bologna multiculturale non riescono a trovare uno straniero come relatore o membro di un comitato, magari soltanto come un simbolo?
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Di nuovo c'è la bufera nel mondo musulmano. Questa volta per le cose dette dal Papa in Germania. Posso capire che possiamo non concordare con qualcosa che dice il Papa ma bisogna arrivare a ammazzare persone, bruciare negozi, minacciare ….? Non è possibile esprimere il proprio dissenso con le parole e dichiarazioni?

Tutto questo non fa che aumentare il senso della paura verso l'islam. Ogni volta che qualcuno osa a dire qualcosa contro l'islam, il messaggio arriva chiaro e forte: Non osate a parlare di noi altrimenti saranno guai per voi!

Comunque, mi rendo conto che spesso creiamo un'immagine monolitica del mondo musulmano che non esiste nel mondo reale. Un recente articolo nella rivista indiana Outlook spiegava i litigi tra i musulmani Barelwis e i musulmani Deobandis. Sembra che un gruppo di Barelwis hanno partecipato in un preghiera dei Deobandis, per questo gesto, hanno perso il diritto di essere musulmani ed erano automaticamente divorziati dalle loro moglie. Hanno dovuto seguire i riti di purificazione per essere riammessi tra i Barelwis e di risposare le loro moglie.

Si parla da anni della persecuzione di musulmani Shia e Ahmadiya da gruppi Sunniti in Pakistan, e in Sudan, i musulmani arabi stanno ammazzando i musulmani neri!

Ma sembra che tutte queste fazioni si uniscono quando si tratta della minaccia dell'occidente!

domenica 10 settembre 2006

Il boss simpatico: Munna Bhai MBBS

Spesso i film di bollywood sono copie indianizzate dei film di Hollywood. I registi indiani li definiscono come film “inspirati” perché spesso la trama del film inspirato viene arricchita con il “masala” o le spezie di bollywood – scene emozionali, canzoni, danze, ecc. Non succede spesso che un film indiano viene copiato a Hollywood, forse perché i film con le trame originali provenienti dall’India sono molto radicati nella cultura indiana e non avranno molto senso per il pubblico che non capisce il contesto culturale specifico.

Comunque un film indiano recente è stato acquistato da una casa produttrice di Hollywood per essere rifatto con gli attori americani. Si tratta di “Munnabhai MBBS” (Fratello Munna, medico chirurgo), un film di Rajkumar Hirani, uscito alla fine del 2004.

Il film è la storia di un piccolo boss mafioso di Mumbai, Munna. A Mumbai tutti i mafiosi sono chiamati con l’appellativo di “bhai” (fratello). Munna bhai (Sanjay Dutt) è un mafioso con alcuni principi. Per esempio, lui è contento di rapire qualcuno su ordine ma quando capisce che l’ordinante non si comportato in maniera corretta, è capace di rapire anche l’ordinante e chiedere un riscatto per la sua liberazione.

Circuit (circuito, l’attore Arshad Warsi) è l’assistente fedele di Munna Bhai, nonché il papà di un bimbo (Short Circuit o corto circuito), disponibile a seguire ogni ordine del suo capo.



L’unica persona di cui Munna bhai ha paura è il suo papà, un vecchio insegnante in pensione che abita in un villaggio. Scappato da casa quando era un ragazzo, Munna sa di aver deluso le aspettative di suo papà e per questo racconta al padre una bugia che lui ha studiato in città come medico e ora gestisce un ambulatorio.

Ogni volta che il suo padre viene in città a trovarlo, la casa di Munna diventa un’ospedale, i suoi colleghi malviventi si vestono da medici, infermieri e pazienti.



Quando la sua bugia viene scoperta, il suo padre si offende e giura di non tornare mai più dal figlio. Umiliato davanti a tutti, Munna giura di diventare un medico. Per farlo è pronto a rapire, ammazzare e pagare tutto e chiunque, ma resta scioccato davanti alla mancanza di umanità nella professione medica.

La lezione finale di Munnabhai è di far ricordare a tutti l’importanza delle rapporti umani. E’ un film semplice e divertente, ma anche con un forte messaggio, quello di non dimenticare la gentilezza nei rapporti con gli altri.

Recentemente è uscito il nuovo film di Munnabhai, si chiama Lago Raho Munnabhai (Continua fratello Munna). Il film riguarda la scoperta della filosofia di non violenza di Mahatma Gandhi da parte di Munna. Le riviste, i siti indiani e i blog, tutti sono unanimi, è meglio del primo film di Munna bhai. Appena dopo 10 giorni della uscita, il film è stato dichiarato un campione di incassi. I genitori sono contenti perché il film fa riscoprire i valori di Mahatma Gandhi alla generazione di oggi. I giovani sono contenti perché il film è divertente. Spero di vederlo presto.

domenica 27 agosto 2006

Convivenza

Tante volte le persone mi chiedono di parlare delle cose indiane – come sono gli indù? Perché in India vi sono lotte tra gli indù ed i musulmani? Altre volte mentre cerco di spiegare questioni sulle differenze culturali o religiose, vedo la perplessità negli occhi degli interlocutori. Essere indiano significa per me vivere le mie multiple identità, spesso dei confini confusi, con serenità e gioia, ma faccio fatica a spiegarlo bene. Invece ho trovato un articolo di di G.V. Dasarathi, che secondo me lo spiega molto bene. Sig. Dasarathi ha 46 anni e gestisce un’attività di software informatico in India. Lui ha scritto questo articolo in inglese sul portale indiano Rediff.com che ho pensato di presentare qui parzialmente:

“… Miei genitori parlavano il tamil, mio papà aveva la pelle scura e mia mamma aveva la pelle più chiara. La mia governante era una signora con la pelle chiara dallo stato di UP (nell’India del nord) e parlava hindi. Abitavamo dentro una densa foresta nello stato di Jharkhand (nell’India centro-orientale) dove la maggior parte della popolazione era composto da gruppi tribali con la pelle nera che parlavano una lingua che si chiama “ho”. Quando uscivo di casa vedevo persone che portavano abiti di tutti i tipi – i sadhu (i monaci indù) nudi, i tribali che erano topless, e le donne musulmane con il burqa (il chaddor).

Maggior parte degli ospiti che venivano a trovarci parlava l’inglese. Noi eravamo indù, la governante era musulmana, la maggior parte dei tribali erano cristiani o animisti…Persone che ci circondavano avevano tutte le abitudini alimentari possibili. Alcuni mangiavano solo verdure, alcuni non mangiavano carne di mucca, alcuni non mangiavano carne di maiale, altri mangiavano tutto compreso i topi e i camaleonti.

La nostra piccola comunità di minatori celebrava le feste di tutte le religioni con uguale gioia…questa era la mia introduzione all’enorme diversità della nostra
meravigliosa terra. Da bambino ascoltavo persone con colori della pelle diversa, i loro tratti somatici diversi, le loro quattro lingue diverse, le loro quattro religioni diverse, il loro modo di vestirsi diverso, che mangiavano cose diverse…

Mentre crescevo, mio papà fu trasferito più volte in diversi stati dell’India. Così ho conosciuto il resto dell’India. Ho imparato che gli indiani credono in tanti dei, molto di più delle quattro religioni che avevo conosciuto da bambino. Ho imparato che ogni stato dell’India ha 3 - 4 diverse regioni. Persone di queste regioni parlano lingue o dialetti diversi tra di loro e spesso non capiscono i dialetti delle altre regioni dello proprio stato. Ogni regione ha la propria cucina diversa dalle altre, si veste diversamente e ha apparenze fisiche diverse.

Oggi nessuno può convincermi che sono superiore a qualcuno altro per la mia religione o per il colore della mia pelle o per la mia lingua. La diversità che ho vissuto, e accettato e nella quale ho gioito da bambino, non è qualcosa di unico. Penso che ogni indiano vive questa stessa esperienza, soltanto i dettagli possono essere diversi. Credo che sia questo che fa di noi il paese più tollerante del mondo…

Si è vero che ogni tanto scoppiano disordini per questa diversità, quando ci ammazziamo tra di noi per le nostre diversità. E’ tragico e vorrei che non succedesse mai più, ma guardatelo in un altro modo: i musulmani sunni, i buddisti, i cattolici romani, i sikh, i musulmani bohra, i giani digambara, i parsi, i khurmi, gli iyers, gli agarwals, i nairs, i cristiani siriani, i musulmani shia, i giani shwetambara, gli ebrei, i musulmani ismailiti, gli avventisti del settimo giorno, i bishnoi, e persone di molte
altre religioni vivono insieme in India da secoli.

In Gran Bretagna e in Yemen per decenni persone di due branche diverse della stessa religione si sono ammazzati tra di loro. In Libano, per quanti anni le persone
di due religioni hanno ucciso tra di loro? In Stati Uniti e in Sud Africa, per decenni le persone hanno litigato per la differenza nella colore della pelle. In Canada litigano per le due lingue diverse.

Come indiano, questi conflitti mi fanno sorridere – solo due religioni, solo due colori, due lingue! Vorrei dire a loro, “Ragazzi provate la coesistenza tra un gianista digambara, che parla gujarati, che si veste con il kurta pigiama, che mangia solo erbe e un cristiano siriano del kerala che parla malayalam, che porta un mundu e che
mangia tutto”. Dove saremmo se diventassimo intolleranti come gli altri?

Penso che l’intolleranza religiosa che vediamo in questi giorni è una cosa confinata ad una piccola percentuale di noi, e che a lungo andare sappiamo che non è importante prendere troppo seriamente le nostre differenze, sappiamo che la maggior parte di noi è risultato di mescolanze di razze, religioni e culture…

… penso che il futuro di India sarà positivo. Non perché possiamo produrre e esportare acciaio o armi o tessuti, ma perché noi comprendiamo la convivenza.”

giovedì 29 giugno 2006

La madre del terrorista

La madre del terrorista (1997, un film di Govind Nihalani)

India, Calcutta 1970.

Sujata Chakraborty (Jaya Bhaduri), ha un sonno agitato, si sveglia quando suona il telefono. Accanto a lei dorme suo marito. Al telefono qualcuno le chiede se conosce Brati Charavorty, “si è mio figlio”risponde lei. “Venga a Kantipokhar per il riconoscimento” dice la voce e interrompe il collegamento. “Che cosa significa” si chiede Sujata, ancora intontita dal sonno, senza capire. La mattina dopo, alla notizia, il marito e il figlio maggior si agitano, vogliono subito attivare i propri contatti con la polizia per cercare di risolvere il problema. Il padre (Anupam Kher) dichiara che in ogni caso, non potrà andare a Kantipokhar con la sua macchina. Solo allora qualcuno spiega a Sujata che Kantipokhar è il mortuario della polizia di Calcutta. E' la polizia che vuole qualcuno per riconoscere il corpo di Brati.




Scioccata, Sujata va a Kantipokhar con la moglie del suo figlio maggiore e si trova spinta in una stanza spoglia dove giacciono 5 corpi senza vita coperti da un telo lacero, macchiato di sangue secco. Accanto sono sedute 3 persone povere, le loro facce sono scioccate. Quando toglie il telo dal corpo da riconoscere, Sujata lo sente come uno schiaffo. Il corpo di suo figlio è crivellato di pallottole, e la sua faccia è stata pestata fino a diventare irriconoscibile. Al piede porta la targa "1084".

“Non si può portare via i corpi dei morti” dice la polizia, sono terroristi, criminali pericolosi per la società. Impotente, Sujata guarda i cinque corpi dei giovani ventenni dati alle fiamme.

Così inizia Hazaar Chaurasi Ki Maa (La madre del 1084), il film sulle origini del movimento maoista, conosciuto con il nome di Naxalbari (dal nome del villaggio dove la ribellione iniziò) nella parte nord ovest dell'India alla fine degli anni sessanta.

Il film è basato su un romanzo di Mahashweta Devi, la scrittrice e attivista bengalese, la quale ha passato la sua vita nella lotta per i diritti dei gruppi più poveri ed emarginati in India, dando voce a persone emarginate e senza potere, tramite i suoi romanzi. Oggi, dopo 25 anni, quando il movimento di Naxalbari si è esteso a molti altri stati dell'India, il film è importante per capire le motivazioni ideologiche che spinsero i suoi attivisti, almeno nei primi anni di questo movimento.

Il film è la storia della scoperta di se stessa da parte di Sujata e della scoperta di un mondo a lei sconosciuto. Sujata non capisce perché tutta la famiglia vuole far finta di non aver mai avuto una persona di nome Brati, di dimenticarlo e quando ne parla lo fa esclusivamente nominandolo come criminale e terrorista. Lei è dilaniata da un profondo senso di colpa, perché non l'aveva capito? Perché non aveva sentito le grida di dolore di suo figlio? Perché aveva continuato a vedere il ragazzo sorridente di sempre che tutti i giorni usciva da casa per andare a studiare all'università senza dare peso alle sue idee di rivoluzione per un mondo meno ingiusto?

Sujata vuole capire e così torna alla famiglia di Somu, uno degli altri ragazzi uccisi con Brati (Joy Sengupta). Poi va a trovare Nandini (Nandita Das), la ragazza e compagna di Brati, resa mezza cieca dalle torture della polizia. Questo tentativo di capire le ragioni della morte del proprio figlio portano Sujata a vedere il mondo degli oppressi e a iniziare a capire le grandi disuguaglianze che caratterizzano la società indiana. Allo stesso momento, questo viaggio di scoperta fa capire a Sujata la ipocrisia della propria vita, la vita fatta di facciata, nella quale lei stessa è calpestata ogni giorno nel suo ruolo di madre, donna e moglie.

Il film è molto forte con alcune delle attrici più brave del cinema indiano di Mumbai - Jaya Bhaduri, Seema Biswas e Nandita Das.

Seema Biswas nel ruolo di madre di Somu presenta un performance incredibile. Il suo urlo del pianto rituale quando Sujata entra nella sua casa per la prima volta (in diverse parti del India, dopo la morte di un famigliare, ogni volta che un amico o un parente entra in casa per la prima volta, c'è il pianto rituale) fa drizzare i peli. Quando c'è lei sullo schermo è difficile toglierle gli occhi di dosso.

La parte del film legata a Nandini, la ragazza di Brati, che spiega le motivazioni del movimento di Naxalbari, mi è sembrata un po’ meno efficace perché troppo pieno di parole. Sembra di vedere qualcuno recitare un libro piuttosto che una scena del film. Nandita Das al suo primo film nel ruolo di giovane e magra “naxalite” (rivoluzionaria) con la fibra di acciaio che non si piega alle torture, non è perfetta ma fa già intuire che diventerà un'attrice di grande sostanza.




Ma tra tutti gli attori del film, la migliore è Jaya Bhaduri, nel ruolo di Sujata. L’attrice è tornata a recitare per questo film dopo un intervallo di circa venti anni, ed è la sua interpretazione migliore in una carriera fatta di molti film belli. Il dolore nei suoi occhi, la sua confusione, la sua fatica di capire quello che sta succedendo e alla fine, la sua consapevolezza, tutto diventa credibile. In molte scene del film riesce a trasmettere sentimenti complessi senza gesti o parole. (nella foto sopra, Jaya Bhaduri vestita in bianco con Nandita Das)

Non è un film per passare il tempo - è un film molto impegnativo. Fa parte dell’ ormai defunto Art cinema di Mumbai che si differenziava dal cinema commerciale (masala film) di bollywood. Alla fine possiamo concordare o meno con i ragionamenti dei suoi protagonisti riguardo le cause delle disuguaglianze sociali in India e secondo loro, la necessità della violenza della loro lotta, ma sicuramente è difficile restarne indifferenti.

Personalmente non concordo con le lotte armate perché non portano a nessun cambiamento reale, sostituiscono un'oppressione con un'altra. Anche i protagonisti del film del regista Govind Nihalani arrivano alla stessa conclusione. Govind è uno dei registi dissidenti di Mumbai più importanti, iniziò la sua carriera come cinematografo nel lontano 1962. Tra i suoi film più importanti come cinematografo, c’è anche Gandhi di Richard Attenborough. Dal 1981, quando lui esordì come regista con il suo primo film, Aakrosh (la rabbia), ha seguito la strada dei film denuncia, compreso il più recente Dev, già recensito sul Kalpana.

martedì 6 giugno 2006

Non ho ucciso Gandhi

Il titolo del film mi ha molto incuriosito "Maine Gandhi Ko Nahin Mara" (Non ho ucciso Gandhi). Cosa significa “non ho ucciso Gandhi”? Lo so chi ha ucciso Gandhi, si chiamava Nathu Ram Godse e fu impiccato.

E’ il primo film del regista Jahnu Barua, prodotto dall'attore Anupam Kher, già conosciuto al pubblico italiano come il padre sikh della ragazza indiana in "Bend it like Beckham".




Trama del film: Il film è la storia di un vecchio professore, Uttam Chowdhury (Anupam Kher). Il professore è in pensione e sta perdendo la memoria. Delle volte non si ricorda che è in pensione o che sua moglie è morta un anno e mezzo fa. Delle volte si ricorda quella volta che era finito in un'aula diversa da dove doveva andare a insegnare. Il professore vive con la figlia Trisha (Urmila Matondkar) e il figlio Addi (Karan Chaudhury). Il figlio maggiore Ronu (Rajit Kapoor) vive in America.

Trisha è innamorata di Ashish ma per il matrimonio Trisha deve essere “approvata” dai genitori di Ashish perché lui non vuole sposarsi senza il consenso dei genitori. Addi, il fratello di Trisha è preoccupato, se lei si sposerà chi baderà a suo padre? “Possiamo mandarlo in un istituto”, propone, “non voglio rovinarmi la vita”. Trisha è sconcertata dall’insensibilità del fratello ma Ashish rompe ogni legame con lei – i suoi genitori hanno paura che la malattia del professore sia ereditaria e non vogliono che il loro figlio sposi Trisha.




Improvvisamente la condizione mentale del professore peggiora, comincia ad avere delle allucinazioni e più volte borbotta “Non ho ucciso Gandhi di proposito, è stata una disgrazia. Pensavo di avere una pistola giocattolo, ma qualcuno ha messo una pallottola vera alla mia insaputa e quando ho sparato, Gandhi ha attraversato la mia strada e così è rimasto ucciso.” Nessuno riesce a capire il motivo di queste allucinazioni e le condizioni del professore si deteriorano di giorno in giorno.

Addi, il figlio più giovane telefona al fratello maggiore in America e Ronu torna a Bombay.

Trisha va parlare con Sidharth (Praveen Dabas, conosciuto al pubblico in Italia come lo sposo nel film di Mira Nair, Monsoon Wedding), un altro psichiatra. Indagando si scopre il motivo di queste allucinazioni. Si tratta di una ferita dell’infanzia, mai chiusa. Quando il professore aveva 8 anni, in un gioco con altri bambini aveva sparato una freccia alla foto di Gandhi e quello stesso giorno Gandhi venne assassinato. Il padre del bambino, seguace convinto del Mahatma, si arrabbiò con il figlio per aver osato profanare la foto del Mahatma e pensa che in qualche modo il gesto del bambino abbia fatto morire Gandhi.

Lo psichiatra decide di organizzare una finta seduta da tribunale coinvolgendo un gruppo di attori per fare un processo al professore, "colpevole" per aver assassinato Gandhi. Il finto processo dichiara che non fu il bambino a sparare a Gandhi. Il professore in un momento di lucidità si guarda intorno nella finta aula del tribunale.. e riconosce che si, non fu lui ad uccidere il Mahatma, ma che ormai il Mahatma è solo un simbolo vuoto, una faccia da stampare sulle banconote, ma tutti hanno dimenticato il suo messaggio.. nessuna pensa ormai più ai suoi insegnamenti.

Commenti: La storia del film sul trauma dell’infanzia che affiora quando le memorie iniziano a morire è molto interessante e il film è molto coinvolgente. L’attore Anupam Kher, nel ruolo del professore malato è grandioso. Anche gli altri attori, soprattutto Urmila Matondkar nella parte della figlia Trisha, sono bravi. La musica del film (Bappi Lehri) anche se alle volte troppo ripetitiva, è efficace.

Se vi piacciono i film seri, questo film vi piacerà. L’unica parte che ho trovato meno convincente è il momento di lucidità del professore verso la fine. La sua predica finale, molto bella e commovente, non mi sembra molto logica con il resto del personaggio e la sua malattia.

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