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domenica 29 maggio 2022

RRR - Il Ritorno di Bollywood

Bollywood, il mondo del cinema indiano, una volta era famoso per i suoi film masala, ciò è, i film composti da una miscela di scene prefissate, intervallate da danze e musica. Per esempio, la prima regola di questi film era che gli eroi dovevano essere belli e forti, che potevano lottare contro decine di uomini e vincere, senza scomporre la piega dei loro pantaloni, mentre le donne dovevano essere belle e sapere ballare, piangere e chiedere aiuto, ma all'occorrenza, diventare guerriere. Questi film avevano alcune scene di azione, ma anche le emozioni, soprattutto quelle legate alle questioni dell’amore e quelle famigliari. Amicizie, soprattutto quelle maschili, avevano un ruolo chiave nella trama. 

Quando andavi a vedere un film masala, ti dicevano di lasciare a casa il cervello, che ti creava soltanto degli intralci perché ti spingeva a cercare una logica negli avvenimenti. Poi, negli ultimi anni, il mondo dei film masala era andato in declino.

Dopo lo scoppio dell’epidemia di Covid, il cinema di Bollywood era entrato in ulteriore crisi. Diversi grossi film con le stelle di Bollywood, guidati dai nomi famosi di Bombay (Mumbai) e usciti negli ultimi mesi erano stati bocciati dal pubblico.

Paradossalmente, questo momento di crisi di Bollywood, è stato il momento di grande successo per i film girati nel sud dell'India. Questi film hanno registi e attori del sud, poco conosciuti nel resto dell'India. Questa reincarnazione di Bollywood masala film nel sud dell'India ha sorpreso un po’ tutti. 

L'ultimo di questi film, RRR del regista S. S. Rajamouli, uscito in India nel marzo 2022, ha avuto un enorme successo. Questo film è già disponibile su Netflix in Italia in lingua Hindi con i sottotitoli in italiano. Se vi piacciono i film di avventura e azione con l'aggiunta della salsa di Bollywood, non perdetelo.


Trama di RRR

Il film è ambientato nel India del 1920, quando era ancora una colonia inglese. Il Governatore inglese Scott e la moglie Catherine visitano una tribù indigena dei Gond nella foresta. Catherine rimane affascinata da una bambina della tribù che si chiama Molli e decide di portarla con sé a Delhi, nonostante le suppliche di sua mamma. Bheem, il capo della tribù ha il compito di andare a Delhi e riportare la bambina alla tribù.

Il governatore è stato avvertito che un uomo della tribù verrà per cercare di riprendere la piccola Molli e dà l'ordine di catturare questo uomo. Arrivato a Delhi, per sfuggire ai controlli della polizia, Bheem si traveste da un meccanico, assume il nome di Akhtar ed è ospitato da una famiglia musulmana. 

Un giorno Akhtar/Bheem vede un bambino cadere nel fiume e mentre cerca di salvarlo, incontra un uomo, Rama Raju. I due diventano grandi amici e sono inseparabili. Quando Rama è morso da un serpente, Bheem gli salva la vita. Mentre, Bheem cerca una via per entrare nel palazzo del governatore, incontra una ragazza inglese Jenny e tra i due nasce un’attrazione.

Quando Bheem sta per liberare Molli, scopre che il suo amico Rama Raju è veramente un agente speciale degli inglesi con il compito di catturarlo. Ma anche Rama Raju ha un segreto.

Allora, secondo voi alla fine Bheem riesce a liberare Molli e a riportarla nella foresta? In un film masala, la risposta è già scontata, ma il percorso che segue il film per raggiungere questo scopo, è un po' tanto lungo (oltre 3 ore) ma molto divertente, pieno di colpi di scena.

Infatti, la trama del film non ha niente di speciale o innovativo. Ciò nonostante, se vi piacciono le scene di azione e le scene di grande impatto emotivo, vi piacerà questo film. Come spiegato prima, per godere il film è importante non cercare la logica. Tutto è magnificamente esagerato e poco credibile, ma è bello da vedere. Se vi piacciono i film con i supereroi, vi piacerà questo film. 

Commenti

Il film è ispirato da due personaggi realmente esistiti, i quali avevano lottato contro gli inglesi per l’indipendenza dell’India. Il film prende le storie di questi 2 personaggi, li riunisce in una storia inventata della realtà alternativa.

I coloni inglesi del film sono delle figure brutali e crudeli senza pietà, tranne la bella Jenny, pronti a tutto pur di mantenere il controllo dell'impero inglese sulla colonia indiana. Alcune scene di brutalità sono molto forti e crude.

Invece il punto forte del film è la grandezza delle sue scenografie e le sue scene di azioni. Il film è pieno di effetti speciali, dove i leoni e leopardi si mescolano con treni e carri che bruciano, le moto che sono lanciate in aria come dei sassolini e gli uomini che non devono seguire la legge della gravità.

La letteratura e i film sulle lotte indiane contro gli inglesi hanno sempre privilegiato le figure di Mahatma Gandhi, di suoi seguaci e del partito del congresso. Invece, questo film sceglie di raccontare le storie delle persone che credevano nella lotta armata contro gli inglesi e non nella linea della non violenza di Mahatma Gandhi. Molti di questi personaggi indiani che credevano nella lotta armata sono sconosciuti in occidente.

I due personaggi del film, Ramaraju e Bheem, sono modellati come gli eroi delle due storie religiose-mitologiche conosciute in tutta l'India - il Ramayana e il Mahabharata. Nell'ultima parte del film, Rama Raju, il poliziotto che lavora per gli inglesi, si veste e comporta come il personaggio di Rama, compreso l’arco e le frecce. Anche il nome della sua fidanzata Seeta, è ripreso dal libro. In Ramayana, Rama mangia il cibo offerto da una donna Dalit, mentre in RRR, il personaggio di Rama mangia insieme al suo amico e una famiglia musulmana per dare il messaggio di fratellanza.

 

Bheem invece incarna il personaggio eponimo dalla storia di Mahabharata, uno dei fratelli Pandava del libro, un personaggio conosciuto per la sua grande forza fisica. In Mahabharata, Bheem si sposa con Hidimba, una donna di una tribù indigena mentre nel film, il Bheem appartiene ad una di queste tribù.

Allo stesso momento, per assicurare che il mondo multi-religioso dell’India non si senta sopraffatto dalla mitologia indù, per la maggior parte del film, Bheem si traveste da un musulmano e convive con una famiglia musulmana nazionalista. Questa era una delle caratteristiche dei film masala di una volta - assicurare che le principali religioni dell’India, possono essere rappresentante da personaggi postivi in alcuni ruoli chiave di questi film. Il collegamento tra i personaggi del film e gli eroi mitologici di storie ben conosciute al pubblico, è stato citato dai critici indiani come una delle ragioni per il grande successo ottenuto dal film.

Il film ha anche due stelle del mondo di Mumbai, Ajay Davgn e Alia Bhatt, ma entrambi hanno relativamente piccole parti - Ajay Devgn interpreta il padre e Alia Bhatt interpreta la fidanzata di Rama Raju. Invece il film è dominato da due attori del sud dell’India – NT Rama Rao Jr nel ruolo di Bheem e Ram Charan nel ruolo di Rama Raju.

Il titolo del film RRR significa Rise, Roar, Revolt (Alzare, Ruggire, Ribellare), ma secondo i fan del film, è anche un acronimo delle iniziali delle 3 persone – i 2 attori Rama Rao e Ram Charan, e il regista Rajamouli. Quest’ultimo si fa vedere negli ultimi minuti del film, quando appare insieme ai due eroi nella danza-canzone di chiusura.



Se avete guardato questo film su Netflix, fatemi sapere se il film vi è piaciuto o meno. Era tanto che non guardavo un film di Bollywood di questo tipo senza nessuna pretesa intellettuale. Come si direbbero in India, è un'ottimo timepass!

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lunedì 23 maggio 2022

Il Poeta delle Rivoluzioni

Dushyant Kumar, il poeta indiano scomparso nel 1975, è chiamato "il poeta delle rivoluzioni". È uno dei poeti contemporanei più amati dell'India.
  
Se parliamo di scrittori indiani, alcuni nomi conosciuti a livello internazionale sono Arundhati RoyVikram Seth e Amitabh Ghosh - sono tutti scrittori che scrivono in inglese. Invece, tra gli scrittori che scrivono in lingue indiane, soltanto una piccolissima parte è conosciuta fuori dai confini nazionali. Negli ultimi anni, vi è stato un tentativo di tradurre nelle lingue europee le opere di alcuni, ma la maggior parte di loro rimane sconosciuta. Quest'anno (2022) per la prima volta un libro scritto in Hindi è entrato nei candidati per il premio Booker per le opere tradotte ("La Tomba della sabbia" di Geetashree).

Per quanto riguarda i poeti indiani, penso che oltre al nome di Rabindranath Tagore, nessun altro poeta indiano è conosciuto fuori dall'India.

Questo articolo parla delle poesie di Dushyant Kumar (pronunciato Dusciant). Penso che in qualche modo la sua figura può essere paragonata al mitico James Dean che incarnava i giovani ribelli nel cinema di Hollywood. Anche Dushyant era morto giovane e le sue poesie scritte circa 50 anni fa, sono ancora oggi cantate e gridate dai giovani indiani durante le proteste. Alcune di queste poesie sono state usate anche nei film di Bollywood.


Dushyant Kumar – Brevi Cenni Biografici

Dushyant era nato il 27 settembre 1931 nel distretto di Bijnor, a circa 200 km a nord-est di Delhi. Per le sue prime poesie, scritte quando era ancora adolescente, aveva scelta il pseudonimo di “Vikal” (malinconico). Si dice che l'improvvisa morte di 2 suoi fratelli in quelli anni l’avevano mandato in crisi e determinato il tono malinconico delle sue prime poesie.

Nel 1949, quando aveva 18 anni, era stato sposato con una ragazza di nome Rajeshwari, che allora aveva 16 anni. Dushayant morì per infarto nel 1975 all'età di 44 anni. Invece sua moglie Rajeshwari si è spenta nel 2021. La coppia aveva avuto 2 figli - Alok e Apoorv.

Dushyant si era laureato in letteratura indiana presso l’università di Allahabad. Il suo primo libro scritto in quelli anni, era una critica sui poeti locali. Era famoso per il suo modo di cantare e recitare le sue poesie nei raduni dei poeti. Oltre a centinaia di poesie raccolte in 5 collezioni, ha scritto qualche racconto, qualche critica letteraria e 2 pezzi teatrali, uno dei quali in verso. Tuttavia, ha trovato la fama per le sue poesie. 

Aveva passato la maggior parte della vita professionale nella città di Bhopal dove lavorava nel servizio radiofonico statale. Si sentiva attratto dalle lotte dei contadini e dei poveri lavoratori manuali. Molte delle sue poesie parlano della corruzione.

Le sue opere più popolari che esprimono la rabbia e sono usate nelle proteste, risalgono all’inizio degli anni settanta, l’epoca quando nasceva il mito dell’attore Amitabh Bachchan come “the angry youngman”, il giovane arrabbiato. Dushyant aveva frequentato la casa Bachchan quando studiava a Allahabad perché era un'ammiratore del padre, il poeta Harivansh Rai Bachchan.

Quelli erano gli anni di proteste in India, iniziate nello stato di Bihar nel nord-est, capeggiate da Jaiprakash Narayan (JP), e poi diffuse in diversi altri stati del paese. JP incolpava Indira Gandhi, allora il primo ministro, di un regime autoritario e invocava il Sampurna Kranti (rivoluzione totale).

La signora Gandhi aveva risposto con la dichiarazione dello stato di emergenza e messo in prigione la maggior parte dei politici dell’opposizione mentre tutti i giornali venivano censurati. Le poesie più infuocate di Dushyant risalgono a quel periodo. Pochi mesi dopo, Dushyant morì nel dicembre 1975 per un infarto.

Poco alla volta, i giovani hanno scoperto le sue poesie e hanno iniziato a recitarle durante le proteste e durante gli scioperi. Per esempio, dieci anni fa, India aveva avuto una serie di proteste contro la corruzione, che avevano messo in difficltà il governo. Quelle erano guidate da Anna Hazare e Arvind Kejriwal. Più volte Kejriwal, oggi il capo del governo di Nuova Delhi, aveva recitato le poesie di Dushyant durante i raduni.

Una selezione delle poesie di Dushyant, tradotta in inglese con il titolo “Redeeming Fuzzy Reflections” (Redimere Pensieri Sfumati) è uscita nel 2018 ed è disponibile su Amazon.

Due Poesie di Dushyant

Qui presento 2 delle sue poesie più famose, cantate spesso durante le proteste nel nord dell’India e usate più volte nei film di Bollywood. Per esempio in un video su Youtube, il famoso attore di Bollywood, Manoj Bajpai parla del fascino di Dushyant Kumar e recita una sua poesia

Le due poesie che presento qui sono: “Ho Gayi hai Pir Parvat Si” (Il dolore è diventata una montagna) e “Iss Nadi Ki Dhar” (Dalla corrente di questo fiume). Entrambe le poesie fanno parte della collezione “Saaye me Dhoop” (Sole nell’Ombra) del 1975.

Non penso di essere all’altezza di tradurre delle poesie. Penso che per tradurle, serve qualcuno che conosce la lingua meglio di me. Comunque, l'ho fatto con la speranza che ciò motiverà qualche studente italiano di hindi di approfondire le sue opere e magari preparare una collezione di sue poesie da pubblicare in Italia.

1. Iss Nadi Ki Dhar Se – Dalla corrente di questo fiume

इस नदी की धार से ठंडी हवा आती तो है, नाव जर्जर ही सही, लहरों से टकराती तो है
एक चिंगारी कहीं से ढूँढ लाओ दोस्तो, इस दिये में तेल से भीगी हुई बाती तो है
एक खँडहर के हृदय-सी, एक जंगली फूल-सी, आदमी की पीर गूँगी ही सही, गाती तो है 
एक चादर साँझ ने सारे नगर पर डाल दी, यह अँधेरे की सड़क उस भोर तक जाती तो है 
निर्वसन मैदान में लेटी हुई है जो नदी, पत्थरों से ओट में जा-जा के बतियाती तो है 
दुख नहीं कोई कि अब उपलब्धियों के नाम पर, और कुछ हो या न हो, आकाश-सी छाती तो है 

Dalla corrente di questo fiume arriva un po’ di aria fresca. Anche se malridotta, questa barca sa alle onde resistere.
Trovatemi una scintilla da qualche parte amici. Lo stoppino di questa lampada ha ancora un po’ di olio da bruciare.
Come il cuore delle rovine, come un fiore nella foresta. Il dolore dell’uomo sarà anche muto, ma esso sa cantare.
La sera ha steso una coperta sulla città. Questa strada buia, proprio in quella direzione vuole andare.
Il fiume svestito è steso per terra nella piazza. Dietro le pietre, di nascosto continua a chiacchierare.
Non abbiamo raggiunto nessun traguardo, non importa. Almeno un petto grande come il cielo c'è l'abbiamo.

2. Ho Gayi Hai Pir Parvat Si – Il dolore è diventata una montagna

हो गई है पीर पर्वत-सी पिघलनी चाहिए, इस हिमालय से कोई गंगा निकलनी चाहिए।
आज यह दीवार, परदों की तरह हिलने लगी, शर्त लेकिन थी कि ये बुनियाद हिलनी चाहिए।
हर सड़क पर, हर गली में, हर नगर, हर गाँव में, हाथ लहराते हुए हर लाश चलनी चाहिए।
सिर्फ हंगामा खड़ा करना मेरा मकसद नहीं, मेरी कोशिश है कि ये सूरत बदलनी चाहिए।
मेरे सीने में नहीं तो तेरे सीने में सही, हो कहीं भी आग, लेकिन आग जलनी चाहिए।

Il dolore è diventata una montagna che deve sciogliersi. Un fiume che nasce da questa montagna, ci vuole.
Oggi questo muro trema come una tenda. Una scommessa per far traballare le sue fondamenta, ci vuole.
In ogni strada, ogni viuzza, ogni città e ogni villaggio. Ogni cadavere che cammina con le braccia in aria, ci vuole.
Non voglio soltanto una baraonda. Tentare che vi sia un cambiamento in questo volto, ci vuole.
Se non è nel mio petto, che sia nel tuo. Non importa dove sta il fuoco, ma un fuoco che arde, ci vuole.

Le Poesie che Piacciono a Me 

Personalmente, mi piacciono di più le poesie romantiche di Dushyant. Per esempio, mi piacciono molto le ultime righe della sua poesia "Chandani Chhat Pe Chal rahi Hogi" (Il raggio di luna passeggerebbe sulla terrazza):

तेरे गहनों सी खनखनाती थी, बाजरे की फ़सल रही होगी
जिन हवाओं ने तुझ को दुलराया, उन में मेरी ग़ज़ल रही होगी

Quelle che tintinnavano come i tuoi braccialetti, forse erano le spighe di miglio
Quelle correnti d'aria che ti hanno accarezzato, forse c'era anche la mia poesia tra esse.

Conclusioni

Penso che tradurre le poesie è il compito più arduo per un traduttore. Le poesie di Dushyant hanno un ritmo e una melodia, è difficile mantenere almeno un'eco di quelle nella traduzione.

Penso anche che i pensieri che compongono una poesia sono molto legati alle culture e ai contesti dei loro poeti. Ciò rende le loro traduzioni più complicate. Le emozioni come il dolore e la rabbia, possono perdere almeno una parte della loro forza espressiva, isolati dal loro contesto storico e culturale. Per esempio, la seconda poesia di Dushyant (Il dolore è diventata una montagna) presentata qui sopra, fa riferimento ad un episodio quando la polizia aveva sparato sui manifestanti, uccidendo alcuni di loro. All’epoca, sentire le parole di questa poesia, che invitavano i cadaveri ad alzarsi, di continuare la marcia e di continuare a nutrire il fuoco della protesta, mi aveva fatto venire i brividi.



Ancora oggi, sentire una folla che recita insieme queste parole, mi emoziona, anche quando non condivido i motivi della loro protesta.

Ci ho messo molto tempo per scrivere questo post. L’idea di tradurre le parole di Dushyant Kumar mi faceva paura. Sono contento che alla fine l’ho fatto, anche se ogni volta che rileggo le poesie tradotte, mi sembrano tutte sbagliate. Se qualche lettore italiano che conosce hindi e ha dei suggerimenti per migliora queste traduzioni, ne sarò grato.

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lunedì 2 maggio 2022

Il Clan dei Bachchan

Qualche settimana fa, a seguito di un mio scritto sulle difficoltà di parlare delle caste da parte degli scrittori e dei giornalisti occidentali, avevo avuto uno scambio di messaggi con Vincenza Venti. Vincenza gestisce un gruppo italiano molto popolare sull’attore di Bollywood, Amitabh Bachchan. In quello scambio, avevo ipotizzato un mio scritto sul signor Bachchan e il tema delle caste. Dopo diverse settimane sono riuscito a trovare il tempo per onorare la mia promessa.

Prima di iniziare questo scritto, voglio subito chiarire che in più occasioni il sig. Bachchan si è espresso contro le discriminazioni legate alle caste e ha fatto parte di alcuni film importanti (compreso il recente “Jhund”) che parlano dell’emancipazione delle persone delle cosiddette “caste basse”.

Il grande clan dei Kayastha

Ognuno delle 4 principali caste (Varna) è suddiviso nei sottogruppi dei grandi clan. Il clan della famiglia Bachchan, come quello di mio papà, si chiama Kayasth. Questo clan fa parte della casta dei commercianti. Secondo mia nonna paterna, anticamente i Kayasth svolgevano i lavori manuali, per cui facevano parte della quarta casta, ciò è, dei Shudra. Loro si occupavano di preparare il materiale di scrittura usato dai bramini. Poi hanno iniziato ad aiutare i bramini nella copiatura dei manoscritti e così hanno imparato a leggere e scrivere. Dopo le invasioni musulmane e poi dopo l’arrivo degli inglesi, hanno trovato lavoro nei tribunali e nelle amministrazioni e hanno iniziato a accumulare proprietà e potere. Sono stati tra i primi a studiare inglese. Così con l’aumento della ricchezza e del potere, sono saliti di grado nel sistema dei Varna. Molti insegnanti, professori, scienziati, poeti e scrittori nel nord dell’India appartengono a questo clan.

All’interno del clan dei Kayasth, vi sono diversi “Jaati” (pronunciato “Giati”), ognuno con il suo cognome. I cognomi più importanti tra i Kayasth sono – Srivastava o Shrivastava, Singh, Sinha, Saxena Kishore e Varma. Secondo le regole della casta, il clan dei Kayasth è endogamo, ciò è, per i matrimoni combinati, dovrebbero sposare all’intero del clan, ma solo tra le persone di cognomi diversi. Per esempio, uno Srivastava non può sposare un altro Srivastava ma potrebbe sposare uno Sinha o Saxena.

Oltre al matrimonio, i vari Jaati di un clan possono essere legati tra di loro con altre strutture sociali di sostegno, per esempio, le scuole ed i sistemi tradizionali di ricevere prestiti. Le persone dello stesso clan che provengono da una specifica zona geografica possono trovare ospitalità presso i confratelli e se devono assumere delle persone, dovrebbero privilegiare i confratelli. I clan condividono le mitologie, i rituali religiosi, i tabù alimentari, e spesso hanno le stesse ricette e modi di cucinare alcuni piatti speciali, e anche lo stesso uso del linguaggio.

Ogni clan di ogni casta, compreso i clan delle cosiddette "caste basse", sono organizzati più o meno nello stesso modo. Per questo motivo, sembra così difficile eliminare completamente le caste, soprattutto nelle piccole città e nelle aree rurali. Invece nelle grandi città, le caste hanno sempre meno importanza.

La Famiglia Bachchan

La città di Allahabad (conosciuta anche come Prayag o Prayagraj) è considerata la roccaforte dei Kayasth. La famiglia di mio padre erano i Shrivasta di Allahabad come lo era la famiglia Bachchan.

Il papà Bachchan si chiamava Harivansh Rai Shrivastav. Aveva 19 anni nel 1926 quando era stato sposato con Shyama, che allora aveva 14 anni. La coppia non aveva avuto figli, e nel 1936, Shyama morì a 24 anni per la tubercolosi. Laureato in letteratura inglese, Harivansh era diventato famoso nel 1935 per il suo libro di poesie intitolato Madhushala (La casa del vino), per il quale aveva scelto il pseudonimo di “Bachchan” (Ragazzino).

Nel 1941, 5 anni dopo la morte della prima moglie, Harivansh si sposò per la seconda volta. Questa volta fu un matrimonio d’amore e la sua sposa Teji, era di religione Sikh. Nel frattempo, altri due volumi delle sue poesie (Madhubala o la ragazza del vino e Madhukalash o l’anfora del vino) avevano avuto grande successo e oramai, lui era diventato famoso come “il poeta Harivansh Rai Bachchan”. Insegnava inglese all’università di Allahabad e la famiglia aveva buoni rapporti con Pandit Jawaharlal Nehru e la sua figlia Indira Nehru (dopo diventata Indira Gandhi) che erano i loro vicini di casa. Abitavano nella zona di Civil Lines di Allahabad, una delle zone più chic della città. Il primo genito Amitabh nacque nel 1942, mentre il primogenito di Indira Gandhi, Rajiv nacque nel 1944, e i due diventarono amici.

Nel 1968, quando Rajiv sposò Sonia, la sposa fu ricevuta all’aeroporto di Delhi da Amitabh e fu alloggiata presso la casa della sua mamma, Teji Bachchan.

Un anno dopo, nel 1969 usci “Saat Hindustani”, il primo film di Amitabh. Due anni dopo, nel 1971 usci, Reshma aur Shera, il suo secondo film, nel quale aveva una piccola parte di un ragazzo sordo e muto. Il successo e riconoscimento popolare arrivarono qualche mese più tardi con il film “Anand”, nel quale era nel ruolo di un medico, triste e serio.

Rapporti con la Famiglia Bachchan

Mio nonno era tesoriere di un’associazione dei Kayasth a Allahabad e conosceva la famiglia Bachchan. Noi eravamo cresciuti a Delhi, ma ai primi anni settanta, quando veniva qualche parente da Allahabad, qualche volta si parlava di Amitabh, come “quel ragazzo magro e alto che girava sulla sua bici”.

Suo papà era così famoso che per molti anni, si parlava di Amitabh come “il figlio più grande di Bachchan ji”. Soltanto negli anni ottanta e novanta, Amitabh è divenuto più famoso del suo papà e la gente ha iniziato a riferire a Harvansh Rai come “il papà di Amitabh”.

Amitabh Bachchan e le Caste

Mentre abitavamo a Bologna, seguivo il festival River-to-River organizzato da Selvaggia Velo a Firenze. Così nel 2011, ho avuto l’opportunità di partecipare alla conferenza stampa di Amitabh Bachchan. Da quel incontro, ricordo ancora il mio pensiero quando l’avevo sentito parlare – “Ma parla proprio come i cugini di Allahabad”!

In quell’occasione, lui aveva parlato della sua famiglia con le seguenti parole: “Mio papa era tra le prime persone a Allahabad ad andare contro il sistema delle caste, predominante in quei tempi. Lui si sposò con una ragazza della religione Sikh e diceva spesso che, ‘Vorrei che i miei figli e nipoti, tutti possono sposarsi con le persone provenienti da diverse parti dell’India.’ In fatti, ho sposato una bengalese, mio fratello si è sposato con una ragazza sindhi, mio figlio ha sposato una ragazza tulu e mia figlia si è sposata in una famiglia punjabi.



Alla fine

Ho voluto scrivere delle caste collegandolo alla storia famigliare di Amitabh Bachchan con la speranza che in questo modo si potrà capire meglio come funziona il complesso sistema delle caste, come sta cambiando nelle città e perché si fatica ad eliminarlo.

Spesso si parla delle caste esclusivamente come l’esclusione sociale di alcuni gruppi emarginati e si chiede come mai dopo tutti questi anni, l’India non riesce a cancellare questo sistema.

Tra i gruppi emarginati, oltre a tutte le sue funzioni sociali, il sistema delle caste serve anche ad avere accesso privilegiato all’educazione e al mondo del lavoro, grazie ai programmi speciali del governo indiano. Per cui, mentre questi gruppi lottano contro la violazione dei loro diritti umani e contro la loro esclusione sociale, essi continuano ad avere la casta come un sistema di aggregazione comunitaria. È per questo che soltanto poche persone lottano per abolizione delle caste, la maggior parte lotta soprattutto per abolire l’esclusione sociale legate ad esse.

domenica 10 aprile 2022

Raccontare le Caste

Ogni mese il nostro gruppo di lettura sceglie un libro da leggere e poi ci riuniamo per scambiare le nostre opinioni. Questo mi costringe a leggere dei libri che altrimenti eviterei.

Per esempio, il libro di questo mese (aprile 2022) è “La Treccia” scritto originariamente in francese da Laetitia Colombani e tradotto in italiano da Claudine Turla. Non penso che l'avrei cercato senza la spinta del mio gruppo.

La casta di uno dei personaggi indiani di questo libro gioca un ruolo importante nello sviluppo della sua trama, ma le descrizioni della sua vita hanno molti errori. In questo scritto voglio parlare di alcune delle difficoltà di raccontare le caste.

Le immagini usate in questo scritto sono di un gruppo emarginato che si occupa dei rifiuti nel nord-est dell'India, con il quale avevo lavorato alcuni anni fa.

La Complessità delle Caste

Penso che sarebbe meglio iniziare con qualche informazione sulla casta della mia famiglia, per darvi un’idea della complessità del tema. Miei genitori venivano da due parti diverse del subcontinente indiano e appartenevano a due caste diverse. Entrambi erano seguaci di Mahatma Gandhi. Mio padre, ancora giovane, aveva deciso di "uscire" dalla sua casta, rinunciando al cognome della famiglia e assumendo un cognome inventato, “Deepak” (lampada). Perciò formalmente non appartengo ad una casta specifica.

Questo ci porta alla mia prima spiegazione per le persone che si chiedono come mai l'India non riesce a superare questo sistema – le caste delle famiglie si esprimono attraverso i loro cognomi. Quindi, pensate a come si potrebbe far cambiare i cognomi ad un miliardo di indiani senza creare altri problemi burocratici?

Il sistema è anche incredibilmente complesso, perché si esprime attraverso i Jaati, i sottogruppi delle caste - ogni casta è suddivisa in centinaia di Jaati principali, ognuno dei quali suddiviso in numerosi sottogruppi e con una diversità di regole da osservare che riguardano soprattutto i matrimoni, il mangiare insieme e i rapporti sociali. Qualche volta, i gruppi ed i sottogruppi possono avere gli stessi nomi ma che occupano livelli molto diversi tra di loro nella gerarchia sociale in diverse parti del paese. È come un albero gigante con centinaia di tronchi, e ogni tronco con centinaia di rami e ramoscelli. Raccontare la vita di un sottogruppo delle caste è difficile anche per i narratori indiani, se non li hanno osservati o studiati da vicino.

Il secondo aspetto che complica tutto è che il sistema delle caste non si limita soltanto alle discriminazioni verso alcuni gruppi emarginati, il che potrebbe essere visto come un suo effetto collaterale, ma la sua funzione principale è quella di delineare le regole della vita sociale dei gruppi e per questo è valorizzato dalle comunità. Le caste, per centinaia di milioni di persone, rappresentano i legami con i loro clan. Per cui, non è realistico pensare all’eliminazione del sistema delle caste a breve termine, piuttosto, bisogna pensare a come eliminare le discriminazioni sociali legate ad esse. Con urbanizzazione i vecchi legami dei clan spariscono, così un giorno spariranno anche le caste, ma in tanto bisogna agire per eliminare il suo impatto negativo sulla vita delle persone.


Dopo questi chiarimenti, ora possiamo parlare del libro.

La Treccia di Laetitia Colombani

Il libro racconta la storia di tre donne in tre paesi diversi – Smita, una donna della casta degli intoccabili in India, Giulia che lavora nel laboratorio del padre in Sicilia, e Sarah, un avvocato in carriera in Canada. In questo scritto, mi soffermerò sul personaggio di Smita.

La storia di Smita, ha delle descrizioni molto intense ed emotivamente forti. Per esempio, l’autrice descrive in maniera molto vivida che cosa significa raccogliere gli escrementi delle persone con le mani nude o come si sente quando si va nei campi a catturare i ratti con le mani, per poi ammazzarli, cucinarli e mangiarli. Sicuramente l’autrice ha fatto delle ricerche approfondite e forse ha parlato con delle persone che conoscono il sistema delle caste e la situazione degli intoccabili. Tuttavia, è evidente che l’autrice non ha mai vissuto con loro o visto la loro vita da vicino.

Le Descrizioni Errate: Per esempio, partiamo dai nomi dei 3 personaggi della famiglia (Smita, Lalita e Nagarjun) – questi non sono nomi giusti per i personaggi nella situazione descritta nel libro, perché denotano un contatto con la cultura popolare e urbana. Se questa famiglia aveva un televisore o abitava in un centro urbano, i nomi di Smita e Lalita potevano starci. Invece, Nagarjun, è il nome di una divinità venerata nel sud dell’India e non sta bene in una famiglia ambientata nel nord. È come se una famiglia tradizionale in Sicilia ai primi del novecento avesse nomi come Walter e Elisabeth.

La descrizione del loro villaggio, la posizione del loro pozzo d’acqua, le descrizioni della loro capanna e delle preghiere al dio Vishnu, sono tutte sbagliate. I mestieri di Smita (raccogliere escrementi) e di Nagarjun (catturare ratti) appartengono a due gruppi diversi, i Bhangi e i Musahar, che normalmente non si sposano tra di loro perché hanno diverse collocazioni nella gerarchia delle caste. Questi sono alcuni esempi e il libro è pieno di dettagli errati riguardo la vita di Smita, che è descritta senza nessun riferimento al suo gruppo sociale, alle persone della sua casta che vivono nelle case intorno a lei.

Un lettore che non si rende conto di tutto questo può immergersi nella storia e lasciarsi trasportare dagli eventi. Invece per me questi errori erano come dei sassolini nella scarpa che ostacolavano la mia lettura.

Difficoltà di Scrivere delle Caste

Comunque come ho spiegato sopra, il sistema delle caste in India è complesso ed è difficile da capire per le persone che non sono cresciute dentro. Per cui, spesso gli autori e i giornalisti stranieri, anche quelli che vivono per anni in India, possono commettere degli errori quando ne parlano.

Per esempio, nella recensione del filmLa Tigre Bianca”, scritta da Piero Zardo e uscita sulla rivista “Internazionale”, iniziava con le seguenti parole: “Tratto dal romanzo di Aravind Adiga (Booker prize nel 2008), La tigre bianca racconta la parabola di Balram (Adarsh Gourav), un ragazzo di una famiglia poverissima del Rajastan. Balram è un giovane brillante ma la sua condizione sociale gli impedisce di ricevere un’istruzione e di nutrire ambizioni all’altezza della sua intelligenza. Del resto è così che funziona il sistema delle caste.

Quando avevo letto questa frase sul sistema delle caste, ero rimasto un po' perplesso perché nel libro, la casta di Balram non aveva un’influenza significativa sulla trama. Inoltre, avevo visto delle immagini del film dove il ragazzo lavorava in un ristorante o dove si sedeva al tavolo con il padrone. Entrambe queste immagini facevano pensare che la posizione del ragazzo nella gerarchia sociale non era di una casta bassa. Per cui, il sistema delle caste centrava poco con la sua situazione, centravano molto di più, la povertà, la classe sociale e le rigide gerarchie di classi che sono una parte fondamentale della società indiana. Allora perché Zardo aveva fatto riferimento al sistema delle caste?

Penso che i giornalisti e gli scrittori occidentali, quando guardano la povertà e l'esclusione in India, lo fanno soprattutto attraverso la lente delle caste, anche dove questa centra poco, perché associano la povertà economica esclusivamente all’appartenenza alle caste “basse”.


Visione Superficiale delle Caste

Il sistema delle caste in India è in grande evoluzione ed i rapporti di potere tra le diverse caste continuano a cambiare, soprattutto negli ultimi tre decenni. Continuare a pensare e vedere le persone che appartengono alle caste “basse” esclusivamente come vittime e senza capacità di lottare, è uno sbaglio comune.

Anche i giornalisti bravi ed esperti come Federico Rampini possono dimostrare di non capire questi cambiamenti. Per esempio, nel suo libro "L'Eta del Caos" (Mondadori, 2015), lui aveva scritto: “L'obiezione è come fa (India) a chiamarsi democrazia finché esistono le caste? ... La stortura indiana è enorme, macroscopica, innegabile. Le caste esistono da quando esiste la religione induista ...

Mettere in discussione la democrazia indiana perché esistono le caste dimostra una non conoscenza delle lotte politiche intraprese dalle cosiddette caste basse negli ultimi settant'anni. Loro hanno i loro partiti e più volte hanno vinto le elezioni in diverse regioni, hanno fatto parte dei governi a vario livello e più volte hanno occupato i ruoli di primo piano compreso quello del presidente della repubblica. Tutto questo non poteva accadere se l’India non era una democrazia.

Alla Fine

Il sistema delle caste è un mondo complesso che permea ogni strato della società indiana, soprattutto nei rapporti sociali. Nelle città il sistema ha perso molte delle sue funzioni discriminatorie e se uno ha i soldi, la sua casta potrebbe non avere nessun impatto sulla sua vita. Certo, può succedere che una persona benestante di una casta "bassa" non sia invitata a cena da un vicino di una casta più alta, ma le famiglie benestanti di qualunque casta possono avere come impiegati e collaboratori, le persone di tutte le caste.


Il governo indiano ha messo in atto un enorme programma di assistenza e di aiuti per le caste emarginate. Per esempio, questo programma prevede che una percentuale di posti siano riservati per loro nelle scuole, nelle università e nei luoghi di lavoro. Per accedere a queste agevolazioni servono i certificati di appartenenza alle specifiche caste. Secondo me, questi certificati rendono ancora più forte e radicato il sistema delle caste, ma i gruppi emarginati sono contrari a qualunque cambiamento in questo sistema. Per cui, non penso che il sistema delle caste in India potrà smettere di esistere entro breve.

Nei prossimi decenni, penso che le caste continueranno ad esistere come i clan, ma perderanno ulteriormente la loro capacità di emarginare gruppi di persone. La diffusione dei cellulari e dell’internet a basso costo, stanno arrivando anche nei villaggi indiani più lontani, e portano consapevolezza. Le ribellioni dei gruppi emarginati rimasti nei villaggi costringeranno a cambiare i vecchi mondi ed i vecchi modi di pensare delle persone.

Nota (26 luglio 2022): Ieri, 25 luglio 2022, signora Draupadi Murmu è diventata la quindicesima presidente della repubblica indiana. Signora Murmu appartiene alla tribù indigena dei Santali ed era nata in uno sperduto villaggio del distretto di Mayurbhanj nello stato di Odisha nel nord-est dell'India nel 1958. Aveva faticato a frequentare le scuole elementari perché il suo villaggio non ne aveva una. Aveva iniziato la sua carriera come un'insegnante delle scuole elementari. La sua famiglia vive ancora in quel villaggio sperduto. Nel sistema delle caste, i gruppi Adivasi, ai quali appartiene la signora Murmu, è in fondo alla gerarchia. Penso che per una persona come la signora Murmu diventare il presidente della repubblica indiana sia il trionfo della democrazia, ed è un segno di come il sistema delle caste sta cambiando, anche se molto lentamente.

lunedì 28 marzo 2022

Frammenti dell'India

Il libro “Il Viaggio: Finestre Italiane sull’India” (I Quaderni del Bardo edizioni, 2021) curato da Urmila Chakraborty, è un’antologia di scritti di persone che normalmente non appaiono nei libri. I loro scritti sono estratti di vita quotidiana che parlano dell’India.
Frammenti d'India di Urmail Charkaborty

Nell'antologia, non c’è nessuna pretesa di essere esaustivi e di voler raccontare tutto sull’India, ma sicuramente, troverete punti di vista e modi di raccontare molto diversi tra di loro.

È un libro per le persone che amano l’India o almeno che si sentono attratte dal suo fascino. Sono storie di persone che sono arrivate in India con diverse motivazioni - alcuni avevano scelto di andarci, altri vi sono arrivati quasi per caso, portati dalle correnti della vita. Mentre lo leggevo, mi è venuto in mente uno scambio di battute dal libro “Vita di Pi” di Yann Martel, quando il papà di Pi dice, “Lasceremo l’India, navigheremo come Cristoforo Colombo!” e Pi gli risponde leggermente stizzito, “Ma Cristoforo Colombo stava cercando l’India!

Penso che alla fine, quali scritti del libro vi piaceranno di più, dipenderà molto dai vostri gusti personali. Comunque, se vi interessa l'India, penso che sicuramente troverete qualcosa che ve la farà conoscere meglio e che vi sorprenderà.

Andare oltre gli stereotipi

Nell’immaginario popolare italiano, la prima parola che viene in mente quando si parla dell’India è la sua dimensione spirituale, collegata ai suoi antichi testi sacri e le pratiche come lo yoga e la meditazione. Questa dimensione spirituale è rinforzata dalle idee di non-violenza di Mahatma Gandhi, le poesie di Rabindranath Tagore, gli scritti di Herman Hesse e le opere di Madre Teresa.

Fino a qualche decennio fa, vi era un secondo aspetto legato all’India che era una parte fondamentale dell’immaginario italiano - il mondo dei pirati e dei thugs creato dai libri di Emilio Salgari.

Invece oggi, con la globalizzazione e le nuove tecnologie, i libri di Salgari hanno perso la loro presa, mentre il fascino dell'India come una metà spirituale si è rinforzato. I famosi guru indiani, da Mahesh Yogi (il guru dei Beatles negli anni sessanta) a Sai Baba e Bhagawan Rajneesh (Osho), continuano a trovare nuovi seguaci italiani. I libri di Tiziano Terzani hanno contribuito a rafforzare questa immagine dell’India. Per esempio, nel suo libro “Un Altro Giro di Giostra”, Terzani aveva scritto “Chi ama l'India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. È sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno.”

Negli ultimi decenni, l’immagine dell’India è stata arricchita da un aspetto nuovo - quello legato ai suoi ingegneri e gli esperti di informatica. È questo l'aspetto che sta dietro la storia personale di Urmila Chakraborty, la curatrice del volume e che appare anche in uno degli scritti.

Un libro sull’India vista dagli italiani che non focalizza sulla sua dimensione spirituale è una novità, come prende nota Stefano Caldirola, uno degli autori che nel libro racconta la sua esperienza in una città indiana provinciale: “Molte persone che conoscevo si erano avvicinate all’India perché attratte da diverse scuole di pensiero filosofico o religioso nate nel paese. Davano perciò per scontato che il fascino che l’India esercitava su di me fosse dovuto ai loro stessi motivi: un intimo interesse di natura spirituale verso pratiche o filosofie, sviluppate da ciascuno in un modo personale e articolato. Il pensiero che io fossi interessato allo studio dell’India “solo” perché affascinato dalla straordinaria diversità culturale e sociale del contesto indiano appariva non sfiorarli nemmeno.”

Le voci che compongono l’antologia

Il libro presenta un pot pourri di voci che variano da uno studente universitario che segue una ricerca in un’università indiana alla ragazza che va a cercare la famiglia della sua nonna di origine indiana, dalle persone che lavorano per i progetti di cooperazione a quella che decide di vivere in un villaggio e di aprire un'agenzia di viaggi molto particolare, dalle persone che si interessano di danza classica indiana, agli artisti in cerca di nuove ispirazioni e alle persone che vogliono apprendere la sua musica tradizionale.

Nel libro ho ritrovato più di qualcuno che conoscevo già, anche se non sempre conoscevo le circostanze che le avevano fatto avvicinare all’India - leggere le loro testimonianze è stato particolarmente gradevole.
Frammenti d'India di Urmail Charkaborty - Nuri Sala

Leggere questo libro era come viaggiare in un treno di notte e di guardare fuori dal finestrino, quando la luce del treno illumina brevemente un pezzo di un mondo nuovo. Uno degli aspetti più belli del libro sono i disegni di Paola Scialpi, che anche con una parsimonia di colori, rendono vive le diverse sfaccettature dell'India.

Il nuovo modo di raccontare l’India

Fino a qualche decennio fa, conoscevamo i mondi lontani tramite i racconti di giornalisti e scrittori. Il giornalista Ugo Trambali, nella sua introduzione al volume, lo spiega con le seguenti parole: “La fortuna del giornalista è di poter entrare in profondità nel paese che ha il compito di raccontare: almeno dei giornalisti della mia generazione. Oggi i quotidiani non hanno più soldi per mandare in giro i loro inviati per fare reportages. A causa di questo, col tempo hanno perso interesse e la curiosità necessaria per commissionarli.”

Invece oggi con l’internet e con le App come YouTube e Instagram, ogni viaggiatore può raccontare e condividere con il mondo la sua visione della realtà. Le persone interessate, possono avvicinarsi alla cultura indiana in molteplici modi senza il tramite di un professionista. Soltanto in un secondo momento, quando vogliono approfondire qualcosa, esse cercano un libro. Gli scritti del libro invece stanno già con un piede nel nuovo mondo, servono soprattutto per stuzzicare la curiosità ed a introdurre frammenti di mondi spesso nascosti ai viaggiatori comuni.
Alla fine

Fa bene vedere il proprio paese attraverso gli occhi degli altri. Le voci che parlano attraverso le pagine di questo libro, non sono quelle che hanno fatto ore di pratica per cantare in un coro melodioso. Anzi, sono spesso voci di persone che non sanno cantare o che non hanno mai cantato prima se non nella propria solitudine. Invece, qui si trovano tutte a dover cantare insieme. Il risultato comprende qualche nota discordante, ma anche quella ha una sua bellezza.

Ho molti amici italiani che amano l’India. Molti di loro hanno le loro storie emozionanti da raccontare sulle proprie esperienze. Mentre leggevo il libro, più volte ho ricordato loro. In questo senso, leggere questo libro era anche un viaggio nei ricordi delle persone con le quali ho condiviso una parte del mio cammino.
Frammenti d'India di Urmail Charkaborty - Mariapia Michelon e Vittorio Tonnon

Nota: Per ordinare il libro dal sito di iQdB Edizioni di Stefano Donno

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lunedì 10 agosto 2020

Per Salvare i Bambini

Qualche giorno fa rimasi esterrefatto dalla pubblicità in tv di un’associazione che si occupa dell’infanzia nel mondo. Si vedevano immagini dei bambini africani piccoli gravemente malati e denutriti mentre una voce parlava della siccità nel loro Paese e chiedeva contributi per portare aiuto a queste popolazioni.

Conosco il mondo delle associazioni di volontariato, in Italia e a livello internazionale, da circa 35 anni. Per circa tre decenni ho lavorato con AIFO, un’associazione nazionale con sede a Bologna. Per cui ho seguito da vicino i dibattiti sulle esigenze della raccolta fondi e il diritto di rispettare la dignità delle persone e delle popolazioni con le quali lavoriamo.



Voglio parlarvi di questi dibattiti e delle scelte fatte da alcune associazioni di volontariato in Italia sull’uso della pubblicità.

Persone da Salvare?

Fino a qualche decennio fa l’uso di simili immagini era considerato normale. Nella rivista e nel materiale pubblicitario di AIFO spesso si usavano immagini dei malati di lebbra con gravi disabilità. Io sentivo un senso di fastidio quando guardavo quella pubblicità. Da una parte, parlavamo della solidarietà e della carità, dei diritti umani e della dignità delle persone e poi usavamo le immagini più brutte che potevamo perché avrebbero fatto colpo sui potenziali donatori e avrebbero aumentato le donazioni.

Almeno in parte, il mio senso di fastidio era dovuto anche al fatto che mi sentivo colpito in prima persona, perché l’India era il Paese con il più alto numero dei malati di lebbra e spesso quelle immagini riguardavano l’India. È vero che l’India aveva molti milioni di poveri; e nonostante il grande progresso di queste ultime decadi tutt’ora ne ha, anche se meno di prima. Ma vi era qualcosa fra i nostri proclami e quella pubblicità che stonava.

Primi Dibattiti sull’Uso della Pubblicità

Penso che le prime discussioni serie sulle immagini e sui messaggi nelle associazioni umanitarie siano iniziate negli anni della grande crisi in Corno d’Africa. La grave siccità in Etiopia intorno al 1984-85 aveva visto migliaia di foto simili nei giornali e telegiornali di tutto il mondo. Forse vi ricorderete la terribile fotografia del bimbo morente con l’avvoltoio in attesa seduto dietro, l’emblema di una tragedia che scosse il mondo.

Quelle immagini avevano fatto nascere molte discussioni, non solo dentro le associazioni ma anche nelle nostre piattaforme comuni. Negli anni Novanta avevo partecipato in molte discussioni anche nelle federazioni europee e internazionali. In alcune discussioni parteciparono anche i rappresentanti dei “beneficiari” degli interventi e delle associazioni di volontariato nei Paesi meno sviluppati, i quali fecero presente che quel tipo di pubblicità era contro la dignità delle persone e a volte vanificava i risultati dei nostri interventi. Per esempio: da una parte lamentavamo i pregiudizi e promuovevamo interventi di sensibilizzazione, dall’altra parte – con immagini e messaggi – fomentavamo gli stessi stereotipi.

Risultato di Quelle Discussioni

Eravamo giunti alla conclusione che l’uso di simili immagini e messaggi era in contrasto con i nostri obiettivi. In AIFO e nelle diverse associazioni internazionali che lottano contro la lebbra decidemmo di non usare più foto “forti” di persone con gravi disabilità. Infatti sono circa 20 anni che in AIFO non si utilizzano e qualche volta – quando ho voluto usarne una per illustrare le disabilità e le complicazioni che possono insorgere se le persone non vengono curate in tempo – ho dovuto limitarmi alle immagini “soft”.

Per quanto riguarda i minori nel 1989 è arrivata la Convenzione Internazionale sui Diritti dei Bambini. L’articolo 16 di questa Convenzione riguarda il rispetto della privacy. L’articolo 34 chiede ai governi di proteggere i bambini dallo sfruttamento mentre l’art. 36 demanda ai governi di salvaguardare i bambini da tutto ciò che li danneggia. Infine l’articolo 39: i bambini che hanno sofferto diverse forme di violenza e negligenza dovrebbero essere aiutati a recuperare la loro salute, la dignità e l’autostima.

In Italia la firma della Convenzione aveva innescato molte discussioni. Infatti, La Carta di Treviso era stata firmata il 5 ottobre 1990, per l’iniziativa della Federazione Nazionale della stampa, dell’Ordine dei Giornalisti e di “Telefono Azzurro”. La Carta di Treviso regolamenta il rapporto fra due diritti-doveri costituzionalmente garantiti: esercitare la libertà di informazione e proteggere un cittadino al di sotto dei 18 anni nel suo sviluppo, garantendo una corretta formazione.

Nel 2006 a livello europeo la confederazione delle associazioni umanitarie CONCORD ha deciso un Codice di Condotta sulle Immagini e sui Messaggi nelle strategie di comunicazione pubblica. Questo Codice chiede che la scelta delle immagini e dei messaggi rispetti 3 princìpi fondamentali: la dignità delle persone coinvolte, l’uguaglianza di tutti i popoli e il bisogno di promuovere un trattamento equo, solidarietà e giustizia.

Pubblicità sui Bambini Gravemente Malati

Questa pubblicità è di Save the Children Fund (SCF) Italia. Devo dire che durante i miei anni di lavoro in AIFO più volte ho collaborato con la SCF inglese e ho appreso molto da loro, per esempio nel campo dell’educazione inclusiva. Ho ammirato la dedizione e impegno di diversi colleghi che lavorano per la SCF. So anche che SCF era uno dei motori dietro l’approvazione della Convenzione sui diritti dei bambini. Forse è per questo che vedere quella pubblicità, secondo me contraria ai princìpi fondamentali che segue SCF, mi ha così turbato.

Nei telegiornali spesso vedo che i volti dei minorenni sono resi sfuocati e invisibili, ma quelle misure valgono soltanto per gli italiani. I bambini africani nella pubblicità di SCF Italia non hanno simili diritti? Anche se un simile uso delle immagini dei bambini può essere legale perché l’opinione pubblica non condanna questo tipo di sfruttamento?

Il Garante per i diritti dei minori cosa dice di questa pubblicità? Nel 2017 un gruppo di lavoro guidato dall’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza aveva elaborato un documento sulla tutela dei minorenni nel mondo della comunicazione. Questa tutela copre anche i bambini africani usati nella pubblicità?

All’inizio pensavo che soltanto SCF-Italia adottasse questo tipo di strategie per la raccolta dei fondi ma una ricerca su internet ha fatto emergere simili preoccupazioni anche in altri Paesi. Per esempio un articolo uscito nel 2015 dal titolo “A quale punto la pubblicità per la raccolta fondi supera i limiti?” parlava di simili preoccupazioni riguardo la pubblicità di SCF inglese e chiedeva se «la porno-povertà era tornata». L’articolo prendeva atto che «le immagini che sfruttano i poveri stanno tornando nelle campagne di raccolta fondi».

Conclusioni

Il mondo delle associazioni di volontariato italiane era molto ricco e aveva le radici nelle comunità locali. Insieme a centinaia di gruppi parrocchiali, le associazioni come Mani Tese, Cuamm-Medici con l'Africa e AIFO avevano molte offerte e progetti. Negli ultimi 10-15 anni, gradualmente questo mondo è andato in crisi con un calo delle offerte. Molte piccole associazioni umanitarie hanno dovuto chiudere.

Non è successo solo in Italia ma in tutta l’Europa. Forse per questo alcune associazioni europee e americane più forti sono diventate internazionali e hanno aperto i loro uffici in diversi Paesi. Questi hanno più risorse e possono organizzare campagne di comunicazione molto efficaci per la raccolta dei fondi. Save the Children Fund è tra queste. Forse è l’unico modo per loro di continuare a portare avanti le loro attività?

Devo dire che è deprimente dopo tutte le discussioni, convenzioni e linee guida, tornare a dove eravamo partiti!

mercoledì 15 gennaio 2020

Il Tempio di Sabarimala e la Parità di Genere

 Alla fine di settembre 2018, la Corte suprema in India ha deciso che il divieto per le donne in età fertile di entrare e pregare nel tempio di Sabarimala – situato nello stato di Kerala nella punta sud dell’India – era discriminatorio e l’ha cancellato. Questo articolo è una riflessione su questa decisione e sul suo significato per la parità di genere. Questo articolo è uscito sul sito Bottega del Barbieri.



Decisione della Corte Suprema Indiana

La decisione sull'entrata delle donne nel tempio di Sabarimala è stata presa da un comitato di 5 giudici, composto da 4 uomini e una donna. Mentre i 4 giudici uomini erano favorevoli a questa decisione, l’unica donna del gruppo era contraria alla decisione perché non vedeva la questione pertinente alla parità di genere.

Da allora sono iniziate le proteste dei “fedeli” – comprese centinaia di migliaia di donne – che hanno bloccato ogni tentativo di entrata di donne nel tempio. Anche i due partiti nazionali, BJP e Congresso, si sono espressi contro mentre il governo dello Statale (guidato dal Partito Comunista) ha sostenuto la sentenza.

All’inizio di gennaio 2019 – alle 3 di notte – due attiviste, scortate dalla polizia, sono entrate nel tempio e hanno girato un video della loro visita, provocando nuove proteste dei fedeli.

Questa storia ha focalizzato l’attenzione sul ruolo delle istituzioni governative nelle riforme religiose in India.

La particolarità del tempio di Sabarimala: Il tempio di Sabarimala è dedicato al dio Ayappa molto venerato nel sud dell’India. Vi sono almeno 40 altri templi più o meno famosi per Ayappa nei quali non vi sono divieti contro la visita delle donne. Il veto esiste soltanto per il tempio di Sabarimala dove, secondo il mito, il dio vive la fase celibe della sua storia, quando lui cercava di mantenere il brahamcharya, ciòè, il celibato.

In generale, nell’induismo non vi sono divieti contro l’entrata delle donne nei templi, anche se esistono alcuni altri luoghi sacri in altre parti dell’India dove le donne non possono entrare e altri dove il divieto riguarda gli uomini.

I fedeli del tempio di Sabarimala dicono che le donne che vogliono entrare nel tempio evidentemente non credono nel mito di Ayappa e non vogliono rispettare il suo desiderio del celibato: sono soltanto attiviste che la vedono come una questione di principio.

Promuovere le riforme religiose: Per secoli le consuetudini, spesso con il sostegno delle religioni, hanno dettato i comportamenti delle società. L’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani dalle Nazioni Unite nel 1948 ha creato un nuovo metro per misurare queste consuetudini. In molti Paesi la crescente consapevolezza verso la violazione dei diritti umani ha stimolato i governi ad adottare nuove leggi che andavano contro quanto sostenevano le autorità religiose.

Riformare le religioni tramite le leggi e tramite le sentenze dei tribunali è particolarmente importante in due situazioni:

(a) Quando vi è un rischio all’indennità fisica e alla vita delle persone: l’antica pratica di sati in India secondo la quale le vedove potevano essere bruciate vive insieme ai loro defunti mariti, rientrava in questa categoria: la pratica fu vietata nel 1829 dall’allora governo coloniale inglese in India. Oggi, la mutilazione genitale femminile, ancora praticata in alcuni Paesi, è un altro esempio. Invece cosa dire della circoncisione maschile praticata su bambini ebrei e musulmani?

(b) Quando vi è una discriminazione sistematica contro alcuni gruppi di persone legata al genere o ad altre caratteristiche (come le caste in India). Dunque orientamento sessuale e appartenenza a certe religioni, etnie o gruppi linguistici sono caratteristiche comuni accompagnate da discriminazioni sistematiche.

Discriminazioni che sono comuni tra i vari gruppi religiosi, soprattutto nei Paesi dove questi gruppi sono la maggioranza. Per esempio in diversi Paesi a maggioranza musulmana essere donna, omosessuale o praticare altre religioni sono tutti motivi per essere discriminati.

Riforme Religiose in India

Sabarimala e altre riforme dell’induismo in India: Secondo me, la tradizione di non lasciar entrare le donne di età fertile nel tempio non era una discriminazione sistematica. Non sono un seguace del dio Ayappa ma se i seguaci lo vedono come un celibe, che non vuole essere tentato dalle donne, non sta me giudicare la loro fede.

L’induismo è fatto da una miriade di modi di interpretare e praticare la religione, tutti ugualmente validi, che vanno dalla negazione di qualunque dio alla credenza in 33 milioni di dèi. Non vi è un libro sacro unico, né un arbitro supremo che può giudicare cosa deve fare un indù. I fondamentalisti induisti vedono questa come una debolezza, vogliono promuovere una visione più ristretta della religione, specificando quali dèi pregare e come farlo. Costringere il tempio di Sabarimala ad accogliere le donne e negare il mito di un loro dio mi sembra una “macdonalizzazione” della cultura e una perdita della diversità religiosa, simile a quella che vogliono i fondamentalisti.

Dopo l’indipendenza dell’India nel 1947, il governo indiano ha attuato una serie di leggi per la riforma dell’induismo, compreso il divieto a discriminazioni sulla base delle caste e del genere. Il problema più grande dell’induismo è come fare che le nuove leggi siano applicate e siano accompagnate da un cambiamento sociale. Lavorare nelle comunità per il mutamento sociale non è facile, richiede decenni di impegno e passione. Invece per la maggior parte degli attivisti penso sia più facile lanciare proteste nelle città per cambiare le leggi.

Riformare altre religioni in India: Le riforme religiose effettuate dal governo indiano finora hanno riguardato quasi esclusivamente l’induismo. Non hanno voluto toccare le minoranze religiose anche se tutte insieme le minoranze ammontano a circa 200 milioni di persone. Ogni tentativo di riformare le religioni delle minoranze è visto come un modo di rinforzare la destra nazionalista anche quando le questioni riguardano violazioni gravi dei diritti umani.

Per esempio, tra la comunità musulmana in India, è lecita la pratica di “triplo talaq” secondo la quale un uomo musulmano può divorziare la moglie solo ripetendo per tre volte la parola “talaq” anche per sms. Questa pratica è vietata nei Paesi vicini a maggioranza musulmana – Pakistan e Bangladesh – ma ogni volta che se ne parla in India, si alza un coro di proteste non soltanto dagli elementi più ortodossi della comunità musulmana ma anche dagli attivisti e progressisti indiani che in altri contesti lottano per i diritti delle donne.

Un altro esempio riguarda l’abuso sessuale delle suore da parte dei preti cattolici. A luglio 2018 una suora aveva denunciato la violenza sessuale da parte di un vescovo, monsignor Franco Mulakkal. Per mesi, la polizia continuò a interrogare la suora mentre il vescovo girava liberamente. In ottobre finalmente il vescovo fu imprigionato ma dopo qualche settimana è stato liberato e accolto con grandi cerimonie dai fedeli mentre la suora che lo aveva denunciato continua a vivere emarginata, e ha ricevuto minacce di morte. La maggior parte dei giornali indiani hanno fatto finta di niente. Un articolo recente di Tim Sullivan dell’agenza di stampa americana Associated Press ha approfondito la questione parlandone con molte suore di diverse congregazioni e denunciando il silenzio e la complicità della Chiesa Cattolica in India. Invece gli attivisti e progressisti indiani sono rimasti in silenzio.

La difficoltà di parlare dei problemi delle minoranze non è limitata all’India. Per esempio, diverse attiviste afroamericane hanno parlato della difficoltà di parlare della violenza contro le donne nelle loro comunità perché poteva essere strumentalizzata dai razzisti e da persone di destra per fomentare gli stereotipi. Attivisti LGBT musulmani denunciano poco sostegno dai progressisti e liberali occidentali, i quali non vogliono essere visti come islamofobi.

Dall’altra parte, sempre più spesso, i blog e i media sociali danno un’opportunità a ciascuno di questi gruppi di alzare la propria voce e di farsi sentire. Nel frattempo il cambiamento sociale sembra procedere a piccoli passi e qualche volta è costretto a tornare indietro. Penso che se riusciamo a vedere da una certa distanza capiamo che il mutamento sociale è inevitabile.
Conclusione

Penso sia fondamentale cambiare e riformare le pratiche sociali e religiose che non rispettano i diritti umani. Questo non significa appiattire le nostre diversità culturali. In ogni caso, cambiare le società con le leggi e con le sentenze dei tribunali può essere visto soltanto come un primo e piccolo passo; il cambiamento reale richiede tempi molto più lunghi.

Nota: L'immagine usata in questo posto è della festa di Ambubashi presso il tempio di Kamakhaya a Guwahati nel nord-est dell'India dove si celebra il potere femminile sacro di shakti. Non vi è nessun'imagine del tempio di Sabarimala in questo post.


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giovedì 10 ottobre 2019

Kashmir: Il Paradiso Imprigionato

Nel 17° secolo, Jahangir, l’imperatore Mughal visitò la valle di Kashmir e ne rimase incantato: «Se esiste paradiso sulla terra deve essere proprio qui». Sono più di 30 anni che quel paradiso è sotto assedio. Le storie di Kashmir sono uno groviglio e non è facile capire quale appartiene a chi, fin dove le storie raccontano la verità, dove si travestono e nascondono sotto i racconti immaginari.

Il 5 agosto 2019 un annuncio del governo indiano ha riacceso i fari su questa regione dimenticata.

Sono 3 le parti coinvolte in queste storie: la gente di Kashmir, l’India e il Pakistan.

Considerata la terra del culto di Shiva dai tempi antichi, l’islam arrivò e conquisto questa terra nel 14° secolo. La disputa fra India e Pakistan riguardo Kashmir iniziò nel 1947 subito dopo la partenza del governo coloniale inglese. L’annuncio del governo indiano del 5 agosto è soltanto l’ultimo atto di questa disputa.

È una storia lunga e complessa con colpi e contraccolpi.

Prima di farvi una spiegazione (semplificata) di questa storia e del significato dell’annuncio del governo indiano, vorrei iniziare con un chiarimento riguardo la valle di Kashmir.

La Valle di Kashmir

Lo Stato indiano di Kashmir con circa 13 milioni di abitanti è costituito da 3 regioni: Jammu, Ladakh e la Valle del Kashmir. Le dispute fra India e Pakistan riguardano la Valle di Kashmir: questa è la zona di conflitto non le altre due regioni.



Con circa 6,9 milioni di abitanti (dati del 2011) la regione della Valle di Kashmir rappresenta circa il 15% della superficie dello Stato ed è quella più popolosa. Circa il 96% della popolazione è musulmana, composta da 2 gruppi principali: il 75% sono Sunniti e il 25% sono Shi’a. A ovest questa regione condivide la frontiera con il Pakistan.

Con circa 5,3 milioni di abitanti (sempre dati 2011) la regione di Jammu rappresenta circa il 26% della superfice ed è la seconda per popolazione. Circa l’85% della popolazione di Jammu è induista mentre i musulmani si aggirano sul 7,5%.

Con solo 290.000 abitanti (il riferimento è sempre al 2011) Ladakh è scarsamente popolata. Circa il 46% della popolazione è musulmana, il 39% è buddhista e gli induisti sono il 12%. Al nord questa regione condivide la frontiera con Cina e Pakistan.

La disputa fra l’India e il Pakistan

Nell’agosto 1947 il Governo coloniale inglese aveva lasciato il subcontinente indiano ma prima di partire l’aveva suddiviso in due Paesi: India e Pakistan. Questa suddivisione riconosceva la domanda di una parte di musulmani di essere «un popolo diverso dagli altri indiani» che chiedevano un Paese solo per loro. All’inizio, il Pakistan era composto da due territori – Pakistan est (oggi Bangladesh) e Pakistan ovest – le due aree dove la maggioranza della popolazione era musulmana.

Nel 1947 il subcontinente aveva anche centinaia di principati e regni, i quali potevano scegliere se far parte dell’India o del Pakistan. Questa scelta riguardava soprattutto i regni che si trovavano vicino alle frontiere dei due Paesi, mentre quelli che erano completamente circondati da uno dei Paesi, di fatto non avevano questa scelta.

Il regno di Jammu-Kashmir con la maggioranza della popolazione musulmana (77%) aveva un re induista, Hari Singh. Lui non era sicuro se far parte dell’India o del Pakistan e aveva richiesto del tempo per prendere la sua decisione. Dopo alcuni mesi di attesa, le forze pakistane erano entrate e avevano occupato alcune parti della Valle del Kashmir, soprattutto nel nord ovest. Hari Singh che non aveva una forza militare per resistere, chiese l’aiuto al governo indiano e decise di far parte dell’India. Questa fu la prima guerra fra India e Pakistan per la valle del Kashmir.

Verso la fine del 1948, con l’aiuto delle Nazioni Unite, la guerra finì: i territori della Valle del Kashmir presi dal Pakistan sono rimasti sotto il suo controllo. Vige tutt’ora quella linea di controllo come frontiera, dove le due forze si erano fermate al momento del cessate il fuoco.

Le Nazioni Unite avevano chiesto un referendum fra la popolazione di Kashmir per decidere se volevano andare in Pakistan o restare in India, però non è mai stato organizzato. Secondo l’India, il referendum si deve fare in tutto il territorio della Valle del Kashmir, mentre secondo il Pakistan soltanto nelle parti rimaste in India.

Gli articoli 370 e 35A del Kashmir

L’articolo 370 della Costituzione, approvato nel 1954, garantiva l’autonomia dello Stato di Kashmir, inclusa una sua Costituzione separata. L’articolo 35A – anche esso approvato dal parlamento indiano nello stesso anno – dava poteri allo Stato di Kashmir di decidere i criteri per definire chi poteva diventare residente permanente dello Stato e i suoi diritti.

Scoppio delle violenze in Kashmir

Vi sono state tre guerre fra India e Pakistan per la Valle del Kashmir. La prima, già spiegata sopra, nel 1947-48. La seconda nel 1965 e la terza nel 1998-99.

Fino alla prima parte degli anni ’80, la situazione nella Valle del Kashmir era tranquilla, come testimoniano le scene dei numerosi film di Bollywood girati qui. In quegli anni, le persone del Kashmir chiedevano “azadi”, la possibilità di avere un Paese libero cioè di non essere parte né dell’India né del Pakistan.

Le violenze in Kashmir sono iniziate intorno al 1988-89. Negli anni ’80, gli Usa avevano sostenuto i Mujahideen pakistani per lottare contro i russi in Afghanistan. Dopo il ritiro delle truppe russe dall’Afghanistan nel 1988, molte di queste persone che credevano in un Islam radicale sono arrivate nella Valle del Kashmir. Uno dei loro compiti era reclutare giovani della Valle del Kashmir in India e mandarli nei campi di addestramento in Pakistan per diventare guerriglieri.

All’inizio degli anni ’90 vi erano più di 300.000 induisti nella Valle del Kashmir, conosciuti come i Kashmiri Pandit. Questi sono diventati i bersagli degli islamici radicali. Secondo i rapporti governativi più di mille Kashmiri Pandit sono stati uccisi mentre le loro case e negozi venivano distrutti e bruciati. La maggior parte di loro sono scappati dalla Valle del Kashmir e molti tutt’ora vivono nei campi profughi sparsi in India. Meno dell’ 1% sono rimasti nella Valle del Kashmir.

I mujahideen pakistani e i loro compagni nella Valle del Kashmir hanno iniziato ad attaccare le strutture e i servizi governativi, in particolare i poliziotti locali che erano visti come traditori. Si pensa che negli anni successivi alla fuga dei Kashmiri Pandit dalla Valle, circa 30.000 persone, la maggioranza musulmane, sono state uccise dagli islamisti radicali perché ritenuti favorevoli al governo indiano.

Il governo indiano aveva risposto con l’invio delle forze militari, le quali hanno poteri speciali che garantiscono immunità dai tribunali civili. Così dagli anni ’90 la popolazione vive schiacciata fra queste due forze: da una parte i guerriglieri che vogliono che la Valle del Kashmir diventi parte del Pakistan e dall’altra le forze militari indiane.

Secondo alcuni articoli, di recente un terzo gruppo si è aggiunto alla lotta, cioè le persone che si ispirano alla filosofia dello Stato Islamico (ISIS). Negli ultimi 4-5 anni nelle proteste si vedono sempre di più le bandiere e le rivendicazioni a sostegno del Califfato Islamico e le “chiamate” per stabilire lo Stato islamico in Kashmir con la legge della Shariat.

La posizione pakistana

La religione musulmana è stato il motivo della nascita di Pakistan e dall’inizio i politici pakistani hanno rivendicato il territorio della Valle del Kashmir perché sarebbe una parte della fraternità musulmana.

Nel 1958 in Pakistan vi fu il primo colpo di stato, seguito da diverse dittature militari. Nel 1973 il Pakistan è diventato un Paese basato sulla legge islamica. Negli anni di leadership del dittatore militare Zia-ul-Haq (1977-88) l’islamizzazione si è ulteriormente rinforzata. Risale a quegli anni l’approvazione della legge sulla blasfemia. Gli ultimi decenni hanno visto crescenti suddivisioni fra i vari gruppi di musulmani in Pakistan, per esempio tra i sunni e gli shi’a, e tra i barelavi e i deobandi, mentre altri gruppi di musulmani (come gli ahmadi e i  bohra) sono stati dichiarati “non islamici”.

Questi fattori lasciano poco spazio di manovra ai politici pakistani, anche perché i capi militari detengono tutt’ora molto potere. Avere Kashmir come parte del Pakistan è diventata una questione di orgoglio nazionale e sarà difficile per loro cambiare posizione.

Le decisioni dell’India

Il 5 agosto 2019 il governo indiano ha deciso di revocare gli articoli 370 e 35A: si è giustificato dicendo che entrambi questi articoli erano temporanei e dopo 65 anni è inutile il loro mantenimento. Inoltre si è deciso di separare la regione di Ladakh dallo stato di Kashmir, creando un territorio autonomo sotto la giurisdizione del governo nazionale. Queste risoluzioni sono state approvate da due terzi della maggioranza nel parlamento indiano. Di fatto, questo significa che lo stato di Kashmir con le due regioni (Valle del Kashmir e Jammu) è ora una parte dell'India come tutto il resto del paese.

Dal 5 agosto a oggi (31 agosto) nella Valle del Kashmir non c’è internet e le reti dei telefoni mobili. Dopo il 12 agosto poco alla volta in alcune parti della Valle il servizio di telefoni fissi è stato ripristinato. Molti leader politici e civili sono in prigione o in arresto domiciliare.

Le reazioni

Secondo i giornalisti pro-governativi, dato il continuo rinforzamento dei radicali islamici e dei simpatizzanti di ISIS, bisognava tentare con una strategia nuova in Kashmir e forse l’abrogazione degli articoli 370 e 35A darà una possibilità di avere pace in questa regione. Dicono che con circa 200 milioni di musulmani (stime 2018) India è il secondo Paese nel mondo per il numero di musulmani e non si può rischiare che il radicalismo islamico contagi il resto dell’India.

Inoltre i filo-governativi dicono che l’articolo 35A era discriminatorio e dava diversi privilegi agli uomini del Kashmir. Per esempio, secondo questo articolo, se un uomo di Kashmir sposava una donna lei acquisiva il diritto di vivere nello Stato mentre una donna di Kashmir perdeva il suo diritto di residenza se sposava un uomo forestiero.

Il primo ministro indiano, nel suo discorso per giustificare l’abrogazione dei due articoli, ha parlato soprattutto di aspetti discriminatori inerenti agli articoli 370 e 35A.

Invece secondo i critici, il governo si è comportato in maniera prepotente: avrebbe dovuto avviare un dialogo in Kashmir sulla necessità di abrogare gli articoli. Loro criticano l’arresto di leader politici e civili come il blocco di internet e dei telefoni cellulari.

Le popolazioni delle regioni di Jammu e Ladakh e nel resto dell’India hanno accolto queste decisioni positivamente mentre le principali critiche sono venute dalla Valle di Kashmir e dal Pakistan. I gruppi separatisti hanno giurato “lotta continua” fino alla realizzazione del loro sogno di diventare parte del Pakistan, minacciando attacchi alle strutture governative.

Comunque, con o senza gli articoli 370 e 35A, la situazione del Kashmir non cambierà nel prossimo futuro. Per il momento il blocco di internet e la mancanza di telefoni mobili hanno permesso alle autorità di mantenere il controllo perché senza i social media è difficile organizzare le proteste. Comunque il blocco di internet e dei telefoni cellulari non può durare in eterno e bisognerà vedere che cosa succederà allora.

domenica 14 aprile 2019

Ricerca Emancipatoria

Il 5-6 aprile 2019, ero a Milano al convegno “Essere Persona: La Disabilità nel Mondo” organizzato da AIFO, OVCI e Fondazione Don Gnocchi. In questo convegno ho parlato sul tema “Ricerca Emancipatoria ed Effetti Politici: barriere, discriminazione ed empowerment”.

La ricerca emancipatoria è un approccio innovativo e potrebbe essere di interesse per quanti operano a favore dei gruppi vulnerabili. Per questo motivo, in questo post presento alcuni punti della mia presentazione.

Tipologie di Ricerche

Quando si usa la parola “ricerca”, pensiamo subito ai laboratori e agli scienziati che svolgono delle attività complicate, difficili da capire. Di solito queste sono le “Ricerche Scientifiche”, dove i ricercatori devono mantenere un certo distacco da quello che studiano, per arrivare alle loro conclusioni in maniera neutra.

In campo sociologico, vi sono le “Ricerche Partecipatorie”, dove i ricercatori non sono distaccati dai loro soggetti. Anzi, in queste ricerche, i ricercatori coinvolgono e lavorano insieme alle comunità. Le idee del pedagogista e pensatore brasiliano, Paulo Freire, hanno influenzato lo sviluppo di questa metodologia.

Invece nella “Ricerca Emancipatoria”, sono le comunità stesse in prima persona a svolgere la ricerca. Il concetto di questa metodologia era stato proposto nel 1990 da Mike Oliver, un ricercatore e attivista inglese per i diritti delle persone con disabilità.

Ricerca Emancipatoria sulla Disabilità (RED)

Nella RED, le persone con disabilità sono formate come ricercatori e assistite dagli esperti per svolgere la ricerca. Loro ragionano sui propri problemi che vogliono approfondire e decidono la metodologia di raccolta di informazioni. Sono sempre loro che ragionano sulle informazioni raccolte, e ne traggono le conclusioni. Ciò significa che in una ricerca emancipatoria, le persone con disabilità hanno il potere decisionale su tutti gli aspetti della ricerca.

RED hanno bisogno degli esperti (compreso academici, specialisti, pedagogisti, e rappresentanti delle DPO) – essi hanno il compito di sostenere le diverse fasi della ricerca.

Le RED sono basate sul modello sociale della disabilità e seguono i principi della Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD).

Realizzare RED

La metodologia della ricerca emancipatoria può essere utilizzata con tutti i gruppi vulnerabili, anche se la mia esperienza personale è focalizzata soprattutto sul tema della disabilità.

Verso la metà degli anni 1990, i primi progetti di RED sono stati realizzati da persone con disabilità che studiavano nelle università inglesi. Da allora, il concetto è stato adottato da altri e sperimentato in diversi paesi sviluppati. Alcuni ricercatori di RED, che studiavano nelle università occidentali, sono andati nei paesi in via di sviluppo per svolgere le loro ricerche in collaborazione con le comunità locali.

Invece sono state rare le esperienze di RED, sviluppate e sperimentate interamente nei paesi meno sviluppati. Tra le organizzazioni impegnate nella cooperazione internazionale, AIFO ha colto l’innovazione di questa metodologia ed ha cercato di sperimentarla nei suoi progetti.

Nei progetti AIFO, tra il 2009-2019, sono state realizzate 7 iniziative di RED. Voglio presentare brevemente 6 di queste iniziative, nelle quali ero coinvolto, realizzate in India, Palestina, Italia, Liberia e Mongolia.

RED – SPARK, India (2010)

Il progetto aveva identificato e formato come ricercatori 16 persone disabili (8 donne e 8 uomini). Altre 8 persone disabili erano state formate per svolgere il ruolo di facilitatori durante le riunioni. Tra questi 24 individui, vi erano persone con diversi tipi di disabilità compreso quelle intellettuali, quelle dovute alla lebbra e quelle legate alle malattie mentali. Qualcuno di loro aveva frequentato l’università mentre alcuni di loro erano analfabeti. Rappresentavano vari gruppi di età.

I ricercatori avevano identificato 16 temi prioritari e poi organizzato incontri residenziali di 4 giorni su ciascun tema. Su alcuni temi, vi erano riunioni separate degli uomini e delle donne. Circa 350 persone con disabilità avevano partecipato alle riunioni residenziali e complessivamente la ricerca aveva coinvolto circa 3000 persone.



La foto sopra presenta i ricercatori con alcuni membri del gruppo degli esperti, che comprendevano ricercatori academici, specialisti e rappresentanti delle DPO. Nella foto c’è anche il dott. Enrico Pupulin, ex-responsabile del reparto di Disabilità e Riabilitazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), il quale ha dato un grande contributo allo sviluppo della metodologia di Riabilitazione su Base Comunitaria ed è stato uno dei primi sostenitori della RED.

RED – Bidar, India (2013)

Era focalizzata sul tema della violenza subita dalle persone con disabilità. Tra i ricercatori, vi erano diverse persone con personali esperienze di violenza.

Questa ricerca aveva riscontrato diversi problemi. Anzitutto, aveva i tempi molto stretti e non vi era sufficiente tempo per il follow-up. Dall’altra parte, la ricerca aveva fatto emergere una situazione grave e diffusa di violenze subite dalle persone con disabilità, con poche possibilità di trovare un sostegno nelle famiglie e nelle comunità. La situazione richiedeva tempo e risorse per rispondere ai bisogni emersi, in collaborazione con le altre organizzazioni presenti sul territorio.

Inoltre, la parte quantitativa della ricerca con le sue analisi statistiche era troppo difficile da capire per i ricercatori.

La foto sopra presenta un momento durante la formazione dei ricercatori mentre essi esercitavano le tecniche di fare le domande durante le interviste. “Role Play”, ciò è, i giochi di ruolo, sono una parte fondamentale della formazione dei ricercatori.

RED – Gaza, Palestina (2014)

Ero coinvolto soltanto nella prima fase di questa ricerca, soprattutto nella formazione delle ricercatrici. Questa era la mia unica esperienza di RED che coinvolgeva soltanto le donne con disabilità.

Il gruppo delle ricercatrici comprendeva 4 donne sorde (che si vedono nella foto sotto), che è uno dei gruppi difficili da coinvolgere in una RED perché devono essere accompagnate da persone che possono capire e tradurre il linguaggio dei segni, spesso difficili da trovare nelle aree rurali dei paesi meno sviluppati. In questo caso, il progetto era riuscito a garantire il sostegno dei traduttori.



Questa ricerca aveva evidenziato come le barriere legate alle disabilità si sommavano alle barriere imposte dalla difficile situazione politica e sociale in Palestina.

RED – Ponte San Niccolò, Italia (2016-17)

Questa ricerca riguardava le persone anziane che vivono nel comune di Ponte San Niccolò alle porte di Padova nel nord-est di Italia, ed è stata la mia unica esperienza di RED che non si limitava al tema della disabilità ma aveva un focus più ampio.

Questa ricerca coinvolgeva diversi esperti dell’Università di Padova e dopo una fase iniziale svolta dalle persone anziane, era stata allargata ad uno studio quantitativo più approfondito sulla situazione degli anziani, svolto da volontari appositamente formati.

Per questo motivo, il ruolo delle persone anziane coinvolte nella ricerca era limitato solo alle prime fasi dell’indagine e da un’iniziativa RED, si era trasformata in una ricerca scientifica.

RED – Mongolia (2018)

Questa ricerca è tutt’ora in corso. La ricerca coinvolge circa 35 persone giovani con disabilità, tutti abitanti della capitale Ulaanbaatar, che sono stati formati come ricercatori. Tra loro vi sono molte persone con disabilità gravi compreso una persona con tetraplegia e un gruppetto di persone con paralisi cerebrale. In generale, loro hanno un livello alto di istruzione, compreso alcune persone con un dottorato.

Il progetto è limitato alle aree urbane. Durante l’approfondimento su alcuni temi, qualche ricercatore ha voluto affrontare anche gli aspetti quantitativi. Un altro aspetto innovativo di questa ricerca è la presenza di alcuni funzionari governativi e alcuni quadri delle DPO come ricercatori - anche se all’interno del gruppo, loro sono presenti in veste individuale e non come rappresentanti delle istituzioni. Sarà interessante valutare l’impatto di questa presenza istituzionale in una RED.



La foto sopra presenta il gruppo degli esperti, dominata dalle donne, che sostiene questa ricerca e che comprende alcuni academici, alcuni funzionari governativi, qualche specialista e qualche rappresentante delle DPO.

RED – Liberia (2018)

Anche questo progetto è tutt’ora in corso e dovrebbe concludere nel 2020. La ricerca svolge in 3 distretti rurali del paese e comprende alcune zone con grandi difficoltà logistiche. Il gruppo di ricercatori è piccolo (12 persone, 75% maschi) e molti di loro rappresentano un basso livello socioeconomico con poca istruzione.

La Liberia ha affrontato lunghi anni di guerra civile finita 15 anni fa e una grave epidemia di Ebola tra 2014-16. Entrambi questi eventi continuano avere i loro riflessi sulla vita delle persone del paese e influiscono anche sulla ricerca.



Le persone scelte come ricercatori, sono soprattutto persone con disabilità fisiche mentre le altre disabilità sono poco rappresentate. Nelle prime indagini condotte da questi ricercatori, si evidenziano molte difficoltà sia per la raccolta di informazioni che per capire il ruolo dei ricercatori.

Mongolia e Liberia

In confronto ai ricercatori in Mongolia, il gruppo Liberiano parte con molti più svantaggi e barriere, anche se i suoi ricercatori hanno disabilità meno gravi.

Le informazioni raccolte, il livello di discussioni e le strategie proposte per superare le barriere identificate, sono molto diverse nelle ricerche in corso nei due Paesi.

Nonostante tutte le differenze, penso che ciascuna ricerca, in modo suo, innesca significativi processi di empowerment tra i partecipanti. Queste differenze sono la ricchezza della RED ed è importante riconoscere e valorizzare queste differenze per cogliere i cambiamenti che queste ricerche possono portare.

Gli obiettivi di una ricerca emancipatoria sono scelti dai ricercatori. Se i ricercatori hanno un basso livello di istruzione e vivono nei paesi con poche infrastrutture e servizi, i loro obiettivi, le loro capacità di raccogliere informazioni e le loro strategie proposte per superare le barriere, saranno diverse da quando i ricercatori sono persone istruite e vivono nei paesi più sviluppati.
Informazioni Raccolte Nelle RED

In generale, le ricerche emancipatorie focalizzano sulle informazioni qualitative. La metodologia RED non è adatta alle indagini quantitative. Come spiegato sopra, in qualche ricerca vi sono individui con capacità di lavorare anche sui dati quantitativi, ma difficilmente i gruppi riescono a ragionare sopra e capire il significato di questi dati.

Spesso gli esperti sono delusi quando guardano le informazioni raccolte in una RED, soprattutto nelle fasi iniziali. Invece con tempo, la qualità delle informazioni raccolte migliora, e si vedono i collegamenti tra le caratteristiche specifiche sociali e culturali delle persone e le barriere che essi incontrano.

Oltre alla raccolta delle informazioni in maniera sistematica, l’obiettivo della RED è di promuovere riflessioni sul significato di quelle informazioni tra i ricercatori e le comunità. Loro ragionano su che cosa possono fare per superare le difficoltà identificate. Sono queste riflessioni che promuovono l’empowerment delle persone e spesso stimolano la nascita di azioni comunitarie. In questo senso, una ricerca emancipatoria, spesso diventa una “ricerca azione”, anche se è difficile prevedere o programmare le azioni che potrà far scaturire.

Difficoltà di Realizzare una RED

Spesso le iniziative di RED sono parte di programmi più ampi. Il personale di questi programmi e gli esperti che sostengono la ricerca, possono avere delle aspettative non realistiche verso il suo processo. Inoltre, spesso questi non capiscono la gradualità dei cambiamenti e qualche volta intervengono con troppa forza, interrompendo il processo.

L’obiettivo principale di RED è di promuovere l’empowerment delle persone ma non sappiamo come misurare questo empowerment. Alcune metodologie sono state proposte per misurare l’empowerment, per esempio, dalla Banca Mondiale, ma esse sono difficili da applicare nel contesto di RED. A livello aneddotico, possiamo avere molte storie raccontate dalle persone coinvolte nella RED che testimoniano il loro empowerment, ma queste storie non sono sufficienti come indicatori.

Un’altra difficoltà riguarda l’identificazione della persona che dovrebbe documentare tutto il processo della ricerca. Per svolgere questo lavoro, idealmente abbiamo bisogno di qualcuno istruito e capace, che può ascoltare i ricercatori con empatia senza cercare di influenzarli o di dominarli – e questo è difficile.

Le discussioni durante le riunioni formali di RED sono una piccola parte del suo processo. Quando parte il processo di ricerca, vi può essere una grande vivacità di discussioni e attività tra i ricercatori e tra loro e le comunità, ma tutto questo avviene fuori dalle riunioni formali e non sempre i responsabili della documentazione hanno la possibilità di raccogliere queste informazioni.

In fine, le discussioni e le interviste sul territorio avvengono nelle lingue locali. Nelle riunioni formali, i tempi sono limitati e spesso i ricercatori non sanno esprimersi bene. Alcune parole e concetti delle lingue locali sono difficili da tradurre. Tutte queste difficoltà creano barriere per la raccolta di queste informazioni nei rapporti.

Per esempio, in un progetto di RED in India, i ricercatori avevano raccolto 18 ore di testimonianze video delle persone dei villaggi. La maggior parte di queste testimonianze erano nei vari dialetti della lingua locale, che variano secondo i villaggi. I traduttori basati nelle città non erano in grado di capirli. Per la loro trascrizione bisognava girare nei villaggi e parlare con le persone locali, il che richiedeva tempo e risorse. Per cui non è stato possibile utilizzare queste testimonianze per documentare la ricerca.
Conclusioni

La ricerca emancipatoria non può sostituire le ricerche tradizionali, ma essa può fornire informazioni che sono difficili da raccogliere in altri tipi di ricerche. Nei programmi comunitari, questo approccio alla ricerca può promuovere la partecipazione e inclusione dei gruppi vulnerabili, e allo stesso momento, può stimolare l’avvio di diverse attività da parte dei gruppi emarginati per contrastare la propria esclusione.

Ricerca emancipatoria può essere realizzata soltanto come un’attività inserita dentro un programma comunitario più ampio, perché richiede la piena partecipazione della comunità. Essa deve essere vista come un processo e ha i suoi tempi di realizzazione.

RED può fornire informazioni specifiche legate al contesto e alla cultura locale delle persone, difficili da raccogliere altrimenti, e promuove empowerment delle persone disabili coinvolte nella ricerca.

La metodologia della RED è nuova e ha bisogno di essere sperimentato. Diversi aspetti della RED, come per esempio, la misurazione dell’empowerment, hanno bisogno di essere definiti.

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