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lunedì 10 agosto 2020

Per Salvare i Bambini

Qualche giorno fa rimasi esterrefatto dalla pubblicità in tv di un’associazione che si occupa dell’infanzia nel mondo. Si vedevano immagini dei bambini africani piccoli gravemente malati e denutriti mentre una voce parlava della siccità nel loro Paese e chiedeva contributi per portare aiuto a queste popolazioni.

Conosco il mondo delle associazioni di volontariato, in Italia e a livello internazionale, da circa 35 anni. Per circa tre decenni ho lavorato con AIFO, un’associazione nazionale con sede a Bologna. Per cui ho seguito da vicino i dibattiti sulle esigenze della raccolta fondi e il diritto di rispettare la dignità delle persone e delle popolazioni con le quali lavoriamo.



Voglio parlarvi di questi dibattiti e delle scelte fatte da alcune associazioni di volontariato in Italia sull’uso della pubblicità.

Persone da Salvare?

Fino a qualche decennio fa l’uso di simili immagini era considerato normale. Nella rivista e nel materiale pubblicitario di AIFO spesso si usavano immagini dei malati di lebbra con gravi disabilità. Io sentivo un senso di fastidio quando guardavo quella pubblicità. Da una parte, parlavamo della solidarietà e della carità, dei diritti umani e della dignità delle persone e poi usavamo le immagini più brutte che potevamo perché avrebbero fatto colpo sui potenziali donatori e avrebbero aumentato le donazioni.

Almeno in parte, il mio senso di fastidio era dovuto anche al fatto che mi sentivo colpito in prima persona, perché l’India era il Paese con il più alto numero dei malati di lebbra e spesso quelle immagini riguardavano l’India. È vero che l’India aveva molti milioni di poveri; e nonostante il grande progresso di queste ultime decadi tutt’ora ne ha, anche se meno di prima. Ma vi era qualcosa fra i nostri proclami e quella pubblicità che stonava.

Primi Dibattiti sull’Uso della Pubblicità

Penso che le prime discussioni serie sulle immagini e sui messaggi nelle associazioni umanitarie siano iniziate negli anni della grande crisi in Corno d’Africa. La grave siccità in Etiopia intorno al 1984-85 aveva visto migliaia di foto simili nei giornali e telegiornali di tutto il mondo. Forse vi ricorderete la terribile fotografia del bimbo morente con l’avvoltoio in attesa seduto dietro, l’emblema di una tragedia che scosse il mondo.

Quelle immagini avevano fatto nascere molte discussioni, non solo dentro le associazioni ma anche nelle nostre piattaforme comuni. Negli anni Novanta avevo partecipato in molte discussioni anche nelle federazioni europee e internazionali. In alcune discussioni parteciparono anche i rappresentanti dei “beneficiari” degli interventi e delle associazioni di volontariato nei Paesi meno sviluppati, i quali fecero presente che quel tipo di pubblicità era contro la dignità delle persone e a volte vanificava i risultati dei nostri interventi. Per esempio: da una parte lamentavamo i pregiudizi e promuovevamo interventi di sensibilizzazione, dall’altra parte – con immagini e messaggi – fomentavamo gli stessi stereotipi.

Risultato di Quelle Discussioni

Eravamo giunti alla conclusione che l’uso di simili immagini e messaggi era in contrasto con i nostri obiettivi. In AIFO e nelle diverse associazioni internazionali che lottano contro la lebbra decidemmo di non usare più foto “forti” di persone con gravi disabilità. Infatti sono circa 20 anni che in AIFO non si utilizzano e qualche volta – quando ho voluto usarne una per illustrare le disabilità e le complicazioni che possono insorgere se le persone non vengono curate in tempo – ho dovuto limitarmi alle immagini “soft”.

Per quanto riguarda i minori nel 1989 è arrivata la Convenzione Internazionale sui Diritti dei Bambini. L’articolo 16 di questa Convenzione riguarda il rispetto della privacy. L’articolo 34 chiede ai governi di proteggere i bambini dallo sfruttamento mentre l’art. 36 demanda ai governi di salvaguardare i bambini da tutto ciò che li danneggia. Infine l’articolo 39: i bambini che hanno sofferto diverse forme di violenza e negligenza dovrebbero essere aiutati a recuperare la loro salute, la dignità e l’autostima.

In Italia la firma della Convenzione aveva innescato molte discussioni. Infatti, La Carta di Treviso era stata firmata il 5 ottobre 1990, per l’iniziativa della Federazione Nazionale della stampa, dell’Ordine dei Giornalisti e di “Telefono Azzurro”. La Carta di Treviso regolamenta il rapporto fra due diritti-doveri costituzionalmente garantiti: esercitare la libertà di informazione e proteggere un cittadino al di sotto dei 18 anni nel suo sviluppo, garantendo una corretta formazione.

Nel 2006 a livello europeo la confederazione delle associazioni umanitarie CONCORD ha deciso un Codice di Condotta sulle Immagini e sui Messaggi nelle strategie di comunicazione pubblica. Questo Codice chiede che la scelta delle immagini e dei messaggi rispetti 3 princìpi fondamentali: la dignità delle persone coinvolte, l’uguaglianza di tutti i popoli e il bisogno di promuovere un trattamento equo, solidarietà e giustizia.

Pubblicità sui Bambini Gravemente Malati

Questa pubblicità è di Save the Children Fund (SCF) Italia. Devo dire che durante i miei anni di lavoro in AIFO più volte ho collaborato con la SCF inglese e ho appreso molto da loro, per esempio nel campo dell’educazione inclusiva. Ho ammirato la dedizione e impegno di diversi colleghi che lavorano per la SCF. So anche che SCF era uno dei motori dietro l’approvazione della Convenzione sui diritti dei bambini. Forse è per questo che vedere quella pubblicità, secondo me contraria ai princìpi fondamentali che segue SCF, mi ha così turbato.

Nei telegiornali spesso vedo che i volti dei minorenni sono resi sfuocati e invisibili, ma quelle misure valgono soltanto per gli italiani. I bambini africani nella pubblicità di SCF Italia non hanno simili diritti? Anche se un simile uso delle immagini dei bambini può essere legale perché l’opinione pubblica non condanna questo tipo di sfruttamento?

Il Garante per i diritti dei minori cosa dice di questa pubblicità? Nel 2017 un gruppo di lavoro guidato dall’Autorità garante per l’infanzia e adolescenza aveva elaborato un documento sulla tutela dei minorenni nel mondo della comunicazione. Questa tutela copre anche i bambini africani usati nella pubblicità?

All’inizio pensavo che soltanto SCF-Italia adottasse questo tipo di strategie per la raccolta dei fondi ma una ricerca su internet ha fatto emergere simili preoccupazioni anche in altri Paesi. Per esempio un articolo uscito nel 2015 dal titolo “A quale punto la pubblicità per la raccolta fondi supera i limiti?” parlava di simili preoccupazioni riguardo la pubblicità di SCF inglese e chiedeva se «la porno-povertà era tornata». L’articolo prendeva atto che «le immagini che sfruttano i poveri stanno tornando nelle campagne di raccolta fondi».

Conclusioni

Il mondo delle associazioni di volontariato italiane era molto ricco e aveva le radici nelle comunità locali. Insieme a centinaia di gruppi parrocchiali, le associazioni come Mani Tese, Cuamm-Medici con l'Africa e AIFO avevano molte offerte e progetti. Negli ultimi 10-15 anni, gradualmente questo mondo è andato in crisi con un calo delle offerte. Molte piccole associazioni umanitarie hanno dovuto chiudere.

Non è successo solo in Italia ma in tutta l’Europa. Forse per questo alcune associazioni europee e americane più forti sono diventate internazionali e hanno aperto i loro uffici in diversi Paesi. Questi hanno più risorse e possono organizzare campagne di comunicazione molto efficaci per la raccolta dei fondi. Save the Children Fund è tra queste. Forse è l’unico modo per loro di continuare a portare avanti le loro attività?

Devo dire che è deprimente dopo tutte le discussioni, convenzioni e linee guida, tornare a dove eravamo partiti!

domenica 14 aprile 2019

Ricerca Emancipatoria

Il 5-6 aprile 2019, ero a Milano al convegno “Essere Persona: La Disabilità nel Mondo” organizzato da AIFO, OVCI e Fondazione Don Gnocchi. In questo convegno ho parlato sul tema “Ricerca Emancipatoria ed Effetti Politici: barriere, discriminazione ed empowerment”.

La ricerca emancipatoria è un approccio innovativo e potrebbe essere di interesse per quanti operano a favore dei gruppi vulnerabili. Per questo motivo, in questo post presento alcuni punti della mia presentazione.

Tipologie di Ricerche

Quando si usa la parola “ricerca”, pensiamo subito ai laboratori e agli scienziati che svolgono delle attività complicate, difficili da capire. Di solito queste sono le “Ricerche Scientifiche”, dove i ricercatori devono mantenere un certo distacco da quello che studiano, per arrivare alle loro conclusioni in maniera neutra.

In campo sociologico, vi sono le “Ricerche Partecipatorie”, dove i ricercatori non sono distaccati dai loro soggetti. Anzi, in queste ricerche, i ricercatori coinvolgono e lavorano insieme alle comunità. Le idee del pedagogista e pensatore brasiliano, Paulo Freire, hanno influenzato lo sviluppo di questa metodologia.

Invece nella “Ricerca Emancipatoria”, sono le comunità stesse in prima persona a svolgere la ricerca. Il concetto di questa metodologia era stato proposto nel 1990 da Mike Oliver, un ricercatore e attivista inglese per i diritti delle persone con disabilità.

Ricerca Emancipatoria sulla Disabilità (RED)

Nella RED, le persone con disabilità sono formate come ricercatori e assistite dagli esperti per svolgere la ricerca. Loro ragionano sui propri problemi che vogliono approfondire e decidono la metodologia di raccolta di informazioni. Sono sempre loro che ragionano sulle informazioni raccolte, e ne traggono le conclusioni. Ciò significa che in una ricerca emancipatoria, le persone con disabilità hanno il potere decisionale su tutti gli aspetti della ricerca.

RED hanno bisogno degli esperti (compreso academici, specialisti, pedagogisti, e rappresentanti delle DPO) – essi hanno il compito di sostenere le diverse fasi della ricerca.

Le RED sono basate sul modello sociale della disabilità e seguono i principi della Convenzione Internazionale sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD).

Realizzare RED

La metodologia della ricerca emancipatoria può essere utilizzata con tutti i gruppi vulnerabili, anche se la mia esperienza personale è focalizzata soprattutto sul tema della disabilità.

Verso la metà degli anni 1990, i primi progetti di RED sono stati realizzati da persone con disabilità che studiavano nelle università inglesi. Da allora, il concetto è stato adottato da altri e sperimentato in diversi paesi sviluppati. Alcuni ricercatori di RED, che studiavano nelle università occidentali, sono andati nei paesi in via di sviluppo per svolgere le loro ricerche in collaborazione con le comunità locali.

Invece sono state rare le esperienze di RED, sviluppate e sperimentate interamente nei paesi meno sviluppati. Tra le organizzazioni impegnate nella cooperazione internazionale, AIFO ha colto l’innovazione di questa metodologia ed ha cercato di sperimentarla nei suoi progetti.

Nei progetti AIFO, tra il 2009-2019, sono state realizzate 7 iniziative di RED. Voglio presentare brevemente 6 di queste iniziative, nelle quali ero coinvolto, realizzate in India, Palestina, Italia, Liberia e Mongolia.

RED – SPARK, India (2010)

Il progetto aveva identificato e formato come ricercatori 16 persone disabili (8 donne e 8 uomini). Altre 8 persone disabili erano state formate per svolgere il ruolo di facilitatori durante le riunioni. Tra questi 24 individui, vi erano persone con diversi tipi di disabilità compreso quelle intellettuali, quelle dovute alla lebbra e quelle legate alle malattie mentali. Qualcuno di loro aveva frequentato l’università mentre alcuni di loro erano analfabeti. Rappresentavano vari gruppi di età.

I ricercatori avevano identificato 16 temi prioritari e poi organizzato incontri residenziali di 4 giorni su ciascun tema. Su alcuni temi, vi erano riunioni separate degli uomini e delle donne. Circa 350 persone con disabilità avevano partecipato alle riunioni residenziali e complessivamente la ricerca aveva coinvolto circa 3000 persone.



La foto sopra presenta i ricercatori con alcuni membri del gruppo degli esperti, che comprendevano ricercatori academici, specialisti e rappresentanti delle DPO. Nella foto c’è anche il dott. Enrico Pupulin, ex-responsabile del reparto di Disabilità e Riabilitazione dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), il quale ha dato un grande contributo allo sviluppo della metodologia di Riabilitazione su Base Comunitaria ed è stato uno dei primi sostenitori della RED.

RED – Bidar, India (2013)

Era focalizzata sul tema della violenza subita dalle persone con disabilità. Tra i ricercatori, vi erano diverse persone con personali esperienze di violenza.

Questa ricerca aveva riscontrato diversi problemi. Anzitutto, aveva i tempi molto stretti e non vi era sufficiente tempo per il follow-up. Dall’altra parte, la ricerca aveva fatto emergere una situazione grave e diffusa di violenze subite dalle persone con disabilità, con poche possibilità di trovare un sostegno nelle famiglie e nelle comunità. La situazione richiedeva tempo e risorse per rispondere ai bisogni emersi, in collaborazione con le altre organizzazioni presenti sul territorio.

Inoltre, la parte quantitativa della ricerca con le sue analisi statistiche era troppo difficile da capire per i ricercatori.

La foto sopra presenta un momento durante la formazione dei ricercatori mentre essi esercitavano le tecniche di fare le domande durante le interviste. “Role Play”, ciò è, i giochi di ruolo, sono una parte fondamentale della formazione dei ricercatori.

RED – Gaza, Palestina (2014)

Ero coinvolto soltanto nella prima fase di questa ricerca, soprattutto nella formazione delle ricercatrici. Questa era la mia unica esperienza di RED che coinvolgeva soltanto le donne con disabilità.

Il gruppo delle ricercatrici comprendeva 4 donne sorde (che si vedono nella foto sotto), che è uno dei gruppi difficili da coinvolgere in una RED perché devono essere accompagnate da persone che possono capire e tradurre il linguaggio dei segni, spesso difficili da trovare nelle aree rurali dei paesi meno sviluppati. In questo caso, il progetto era riuscito a garantire il sostegno dei traduttori.



Questa ricerca aveva evidenziato come le barriere legate alle disabilità si sommavano alle barriere imposte dalla difficile situazione politica e sociale in Palestina.

RED – Ponte San Niccolò, Italia (2016-17)

Questa ricerca riguardava le persone anziane che vivono nel comune di Ponte San Niccolò alle porte di Padova nel nord-est di Italia, ed è stata la mia unica esperienza di RED che non si limitava al tema della disabilità ma aveva un focus più ampio.

Questa ricerca coinvolgeva diversi esperti dell’Università di Padova e dopo una fase iniziale svolta dalle persone anziane, era stata allargata ad uno studio quantitativo più approfondito sulla situazione degli anziani, svolto da volontari appositamente formati.

Per questo motivo, il ruolo delle persone anziane coinvolte nella ricerca era limitato solo alle prime fasi dell’indagine e da un’iniziativa RED, si era trasformata in una ricerca scientifica.

RED – Mongolia (2018)

Questa ricerca è tutt’ora in corso. La ricerca coinvolge circa 35 persone giovani con disabilità, tutti abitanti della capitale Ulaanbaatar, che sono stati formati come ricercatori. Tra loro vi sono molte persone con disabilità gravi compreso una persona con tetraplegia e un gruppetto di persone con paralisi cerebrale. In generale, loro hanno un livello alto di istruzione, compreso alcune persone con un dottorato.

Il progetto è limitato alle aree urbane. Durante l’approfondimento su alcuni temi, qualche ricercatore ha voluto affrontare anche gli aspetti quantitativi. Un altro aspetto innovativo di questa ricerca è la presenza di alcuni funzionari governativi e alcuni quadri delle DPO come ricercatori - anche se all’interno del gruppo, loro sono presenti in veste individuale e non come rappresentanti delle istituzioni. Sarà interessante valutare l’impatto di questa presenza istituzionale in una RED.



La foto sopra presenta il gruppo degli esperti, dominata dalle donne, che sostiene questa ricerca e che comprende alcuni academici, alcuni funzionari governativi, qualche specialista e qualche rappresentante delle DPO.

RED – Liberia (2018)

Anche questo progetto è tutt’ora in corso e dovrebbe concludere nel 2020. La ricerca svolge in 3 distretti rurali del paese e comprende alcune zone con grandi difficoltà logistiche. Il gruppo di ricercatori è piccolo (12 persone, 75% maschi) e molti di loro rappresentano un basso livello socioeconomico con poca istruzione.

La Liberia ha affrontato lunghi anni di guerra civile finita 15 anni fa e una grave epidemia di Ebola tra 2014-16. Entrambi questi eventi continuano avere i loro riflessi sulla vita delle persone del paese e influiscono anche sulla ricerca.



Le persone scelte come ricercatori, sono soprattutto persone con disabilità fisiche mentre le altre disabilità sono poco rappresentate. Nelle prime indagini condotte da questi ricercatori, si evidenziano molte difficoltà sia per la raccolta di informazioni che per capire il ruolo dei ricercatori.

Mongolia e Liberia

In confronto ai ricercatori in Mongolia, il gruppo Liberiano parte con molti più svantaggi e barriere, anche se i suoi ricercatori hanno disabilità meno gravi.

Le informazioni raccolte, il livello di discussioni e le strategie proposte per superare le barriere identificate, sono molto diverse nelle ricerche in corso nei due Paesi.

Nonostante tutte le differenze, penso che ciascuna ricerca, in modo suo, innesca significativi processi di empowerment tra i partecipanti. Queste differenze sono la ricchezza della RED ed è importante riconoscere e valorizzare queste differenze per cogliere i cambiamenti che queste ricerche possono portare.

Gli obiettivi di una ricerca emancipatoria sono scelti dai ricercatori. Se i ricercatori hanno un basso livello di istruzione e vivono nei paesi con poche infrastrutture e servizi, i loro obiettivi, le loro capacità di raccogliere informazioni e le loro strategie proposte per superare le barriere, saranno diverse da quando i ricercatori sono persone istruite e vivono nei paesi più sviluppati.
Informazioni Raccolte Nelle RED

In generale, le ricerche emancipatorie focalizzano sulle informazioni qualitative. La metodologia RED non è adatta alle indagini quantitative. Come spiegato sopra, in qualche ricerca vi sono individui con capacità di lavorare anche sui dati quantitativi, ma difficilmente i gruppi riescono a ragionare sopra e capire il significato di questi dati.

Spesso gli esperti sono delusi quando guardano le informazioni raccolte in una RED, soprattutto nelle fasi iniziali. Invece con tempo, la qualità delle informazioni raccolte migliora, e si vedono i collegamenti tra le caratteristiche specifiche sociali e culturali delle persone e le barriere che essi incontrano.

Oltre alla raccolta delle informazioni in maniera sistematica, l’obiettivo della RED è di promuovere riflessioni sul significato di quelle informazioni tra i ricercatori e le comunità. Loro ragionano su che cosa possono fare per superare le difficoltà identificate. Sono queste riflessioni che promuovono l’empowerment delle persone e spesso stimolano la nascita di azioni comunitarie. In questo senso, una ricerca emancipatoria, spesso diventa una “ricerca azione”, anche se è difficile prevedere o programmare le azioni che potrà far scaturire.

Difficoltà di Realizzare una RED

Spesso le iniziative di RED sono parte di programmi più ampi. Il personale di questi programmi e gli esperti che sostengono la ricerca, possono avere delle aspettative non realistiche verso il suo processo. Inoltre, spesso questi non capiscono la gradualità dei cambiamenti e qualche volta intervengono con troppa forza, interrompendo il processo.

L’obiettivo principale di RED è di promuovere l’empowerment delle persone ma non sappiamo come misurare questo empowerment. Alcune metodologie sono state proposte per misurare l’empowerment, per esempio, dalla Banca Mondiale, ma esse sono difficili da applicare nel contesto di RED. A livello aneddotico, possiamo avere molte storie raccontate dalle persone coinvolte nella RED che testimoniano il loro empowerment, ma queste storie non sono sufficienti come indicatori.

Un’altra difficoltà riguarda l’identificazione della persona che dovrebbe documentare tutto il processo della ricerca. Per svolgere questo lavoro, idealmente abbiamo bisogno di qualcuno istruito e capace, che può ascoltare i ricercatori con empatia senza cercare di influenzarli o di dominarli – e questo è difficile.

Le discussioni durante le riunioni formali di RED sono una piccola parte del suo processo. Quando parte il processo di ricerca, vi può essere una grande vivacità di discussioni e attività tra i ricercatori e tra loro e le comunità, ma tutto questo avviene fuori dalle riunioni formali e non sempre i responsabili della documentazione hanno la possibilità di raccogliere queste informazioni.

In fine, le discussioni e le interviste sul territorio avvengono nelle lingue locali. Nelle riunioni formali, i tempi sono limitati e spesso i ricercatori non sanno esprimersi bene. Alcune parole e concetti delle lingue locali sono difficili da tradurre. Tutte queste difficoltà creano barriere per la raccolta di queste informazioni nei rapporti.

Per esempio, in un progetto di RED in India, i ricercatori avevano raccolto 18 ore di testimonianze video delle persone dei villaggi. La maggior parte di queste testimonianze erano nei vari dialetti della lingua locale, che variano secondo i villaggi. I traduttori basati nelle città non erano in grado di capirli. Per la loro trascrizione bisognava girare nei villaggi e parlare con le persone locali, il che richiedeva tempo e risorse. Per cui non è stato possibile utilizzare queste testimonianze per documentare la ricerca.
Conclusioni

La ricerca emancipatoria non può sostituire le ricerche tradizionali, ma essa può fornire informazioni che sono difficili da raccogliere in altri tipi di ricerche. Nei programmi comunitari, questo approccio alla ricerca può promuovere la partecipazione e inclusione dei gruppi vulnerabili, e allo stesso momento, può stimolare l’avvio di diverse attività da parte dei gruppi emarginati per contrastare la propria esclusione.

Ricerca emancipatoria può essere realizzata soltanto come un’attività inserita dentro un programma comunitario più ampio, perché richiede la piena partecipazione della comunità. Essa deve essere vista come un processo e ha i suoi tempi di realizzazione.

RED può fornire informazioni specifiche legate al contesto e alla cultura locale delle persone, difficili da raccogliere altrimenti, e promuove empowerment delle persone disabili coinvolte nella ricerca.

La metodologia della RED è nuova e ha bisogno di essere sperimentato. Diversi aspetti della RED, come per esempio, la misurazione dell’empowerment, hanno bisogno di essere definiti.

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martedì 25 dicembre 2018

Grande Canyon e il Tè allo Zenzero

Più passano gli anni, più sembra che passano veloci. I giorni, le settimane e i mesi, tutti sembrano sfrecciare via come un campione di sci in fuga da un branco di leoni. Non penso che l’analogia sia molto azzeccata, perché non credo che i leoni riescono a correre sulla neve. Inoltre non so sciare. Comunque, mi piace l’immagine di un branco di leoni bianchi con le fauci spalancate che mi seguono sulle nevi mentre cerco di far rallentare il passare del tempo.

Più gli anni corrono veloci, più vorrei documentarli per me stesso. Per esempio, gli anni passati a Guwahati, nel nord-est dell’India, sembrano già svaniti dalla mia memoria. Per fortuna, ne avevo scritto su questo blog, così posso rileggere e rinfrescare la memoria.

L'immagine qui sotto presenta un ragazzo che si prepara per diventare Thayyam, parte del rito sacro celebrato nel nord del Kerala in India, uno dei momenti emozionanti dei miei viaggi nel 2018.



Dopo i primi viaggi internazionali alla fine degli anni 1980, non riuscivo più a ricordarli. Ho un vago ricordo di molti paesi che avevo visitato in quell’epoca. Posti come isola di Jersey, Messico, Bolivia, Nicaragua, nord-ovest del Brasile e il piccolo Lussemburgo – ricordo di esserci stato, ma se ci penso, non riesco a ricordare quasi niente. Invece, verso il 2003-04, ho cominciato a fotografare tutto con la macchina fotografica digitale, e per diversi anni, ciò mi aiutava a fissare gli eventi nella memoria. Invece, da un paio di anni, a forza di scattare migliaia di foto, ora ne anche le foto servono molto. L’unico modo di ricordare il passato, è quello di scriverne.

In questo post, voglio ripercorrere i miei viaggi più belli del 2018.

Alla Riscoperta del Sud dell’India

Il mio primo viaggio del 2018 era in India. Avevo una riunione a Chennai sulla costa sud-orientale e poi dovevo andare ad un ospedale ayurvedico nello stato di Kerala, sulla costa sud-occidentale. Invece di prendere un volo da Chennai per Kochi, ho scelto un percorso stradale e ho fatto la strada più lunga, seguendo tutta la costa. Sono sceso giù da Chennai in autobus, con soste a Mahabalipuram e Pondicherry. Poi ho preso un treno da Villapuram per arrivare a Kanyakumari alla punta sud dell’India.

Da Kanyakumari, sono risalito lungo la costa occidentale, di nuovo in autobus, con tappe a Tiruvanantpuram, Kochi, Kottamangalam, Kozhikode e Kannur. Poi ho proseguito in treno verso il nord, con fermate a Panjim in Goa e Mumbai in Maharashtra - in tutto circa 2000 km fatti in autobus e treno. Nell'immagine qui sotto, uno dei templi rupestri di Mahabalipuram.


 
È stato uno dei viaggi più belli che ho fatto, pieno di emozioni forti. Ho ritrovato un amico che non vedevo da 25 anni. Sono andato a trovare un vecchio insegnante, che con il passare degli anni era diventato un amico e che era gravemente malato. Ho visto il sole sorgere dietro all’antico tempio sulla spiaggia di Mahabalipuram. Una mattina presto, sono andato a vedere i pescatori nei pressi di Kozhikode che tornavo dal mare. Ho visto la trasformazione di un ragazzo che si preparava per il rito sacro di Theyyam in un villaggio vicino a Kannur. Ho partecipato al carnevale di Goa. Ho tantissimi ricordi di questo viaggio che non vorrei dimenticare. Più volte durante l’anno, sono tornato a riguardare le foto scattate durante questo viaggio. In tutto ci ho messo circa un mese, compreso circa una settimana in un centro di cure ayurvediche nei pressi di Kothamangalam.

Il Tè a Rishikesh

Dovevo visitare una casa per gli ex-malati di lebbra vicino a Rishikesh. Era un’occasione per visitare le due città sacre dell’induismo, Rishikesh e Haridwar. L’ultima volta che ero stato da queste parti era circa 50 anni fa, nel 1968, l’anno della visita dei 4 Beatles che erano venuti al ashram di Mahesh Yogi.

Quella volta eravamo andati a trovare il guru Mahesh Yogi e avevo intravvisto anche l’attrice americana Mia Farrow e uno dei Beatles, Ringo Starr. Ma era proprio il Guru con il suo gentile sorriso che mi aveva lasciato una grande impressione.

Questa volta quando sono tornato a vedere il suo ashram, l’area era irriconoscibile. L’ashram oramai è chiuso da anni e sono cresciuti gli alberi e le piante tutto intorno, per cui da fuori non si vede più niente.

Rishikesh rimane la metà preferita dei turisti occidentali. È piena di ashram, soprattutto le zone sulla riva occidentale del fiume Gange, dove i guru di vari tipi, vestiti di arancione, insegnano yoga e meditazione ai turisti. Anche se capisco le loro ragioni, e so che non può essere diversamente, lo sento come una mercificazione della spiritualità e ciò mi mette a disagio. Nell'immagine qui sotto, un sadhu, gli asceti che portano arancione, il colore della rinuncia ai beni materiali.



Alla fine ho preferito fermarmi lontano dalle zone dei turisti stranieri, in un hotel vicino a Triveni Ghat, sulla riva orientale, dove molti indiani anziani, si raggruppavano alla sera per stare insieme e parlare di yoga e di spiritualità. Stare con qualche gruppo per ascoltare le loro discussioni accompagnate da barzellette e gossip, era divertente. In occidente, i luoghi delle religioni e dei luoghi di preghiera, richiedono silenzio e un comportamento rispettoso. Invece la spiritualità popolare in India, è spesso soffusa da un senso di divertimento, canti e musica e di rumore delle chiacchiere.

Vicino all’antico tempio di Tara Mata, avevo trovato una giovane signora con il suo carretto che preparava un tè squisito. Avevo osservato con attenzione la sua preparazione. La sua ricetta per il tè comprendeva un quarto d’acqua e tre quarti di latte intero, fatti bollire con le foglie di tè nero, un pezzettino di zenzero fresco pestato, un pezzettino di cannella e qualche chicco di cardamomo pestato. Dopo il ritorno in Italia, ho continuato a preparare il mio tè di mattino seguendo la sua ricetta.

Avevo sentito dire che negli ultimi decenni, il fiume Gange era diventato molto più sporco e inquinato. Invece, durante la visita, mi aveva fatto piacere vedere che almeno fino a Haridwar, il fiume continuava ad avere le acque limpide e pulite. Lungo il fiume, in diversi punti, si celebrano alla sera il rito della preghiera, “Aarti”. Durante le preghiere i preti parlavano anche dell’importanza di non sporcare il fiume e di non usare la plastica. Forse anche questo ha contribuito a creare maggiore coscienza tra i pellegrini, che stanno più attenti.

Un momento forte di questa visita era incontrare mia cugina Simi che non vedevo da circa 30 anni. Era strano vedere i lineamenti della ragazzina che ricordavo, nel volto di una donna di famiglia che mi ricordava tanto la sua mamma. Nella foto qui sotto, la mia cugina con le sue due figlie.


Grande Canyon e il Deserto Dipinto

Dovevo andare in America per una riunione e volevo approfittare da questo viaggio per andare a trovare mia sorella. Quando le avevo parlato, lei aveva subito preparato un programma per visitare alcuni posti turistici in Arizona e Nuovo Mexico. Purtroppo la mia riunione è stata posticipata, ma oramai ero stato catturato dall’idea del viaggio che lei mi aveva prospettato. Così, in aprile, sono andato lo stesso negli Stati Uniti per un viaggio on-the-road.

Con una macchina a noleggio, siamo partiti da Santa Fe in Nuovo Mexico e abbiamo terminato il nostro viaggio a Phoenix in Arizona dopo 10 giorni. Durante questo viaggio abbiamo visitato Albuquerque, deserto dipinto, foresta pietrificata, Walnut canyon, Flagstaff, Grande Canyon, Sedona, il parco botanico di Phoenix e molti musei. Nell'immagine qui sotto, un panorama della foresta pietrificata.



Mentre andavamo da Flagstaff a Grand Canyon, abbiamo sbagliato la strada e siamo arrivati al lago Powell in Utah. Dopo una piccola sosta alla diga di Powel, siamo tornati in dietro. Durante questa deviazione siamo passati a due passi da “Horse-shoe Bend” sul fiume Colorado, un sito naturale di grande suggestione, ma non sapevamo che cosa era e non ci siamo fermati. Dopo, quando ho visto le foto di questo luogo, mi è dispiaciuto molto per aver perso quest’opportunità! Nell'immagine sotto, un panorama del Gran Canyon.



Un'altra delusione era la mia macchina fotografica Canon, che aveva deciso di bloccarsi a Santa Fe, all’inizio di questo viaggio. Per fortuna, ho potuto fotografare con il mio cellulare. Comunque, davanti alla maestosa bellezza di Grande Canyon, mi è dispiaciuto molto non avere la mia macchina fotografica.

Dopo il grande giro, siamo tornati a Bethesda, vicino alla capitale americana Washington DC. Era il momento della fioritura dei ciliegi, un momento di grande suggestione per visitare questa città.

Quando ripenso a questo viaggio, oltre alle bellezze naturali di posti come il Grande Canyon, ricordo soprattutto la passeggiata lungo il Canyon Road a Santa Fe in Nuovo Messico, con decine di gallerie d’arte su entrambi i lati della strada. Alla fine mi sembrava di essere ubriaco dalle opere d’arte che avevo guardato. Nella foto sotto alcune sculture lungo la strada da quella passeggiata.



Tra me e mia sorella, abbiamo solo 2 anni di differenza. Mentre crescevamo, eravamo molto affiatati. Era bello riscoprire la stessa sintonia dopo tanti anni. Parlavamo continuamente e un’amica di mia sorella che ci aveva accompagnato per una parte di questo viaggio ne era infastidita. Cresciuta senza fratelli, si sentiva tagliata fuori dal nostro costante battibecco!

Ulaan Baatar, Mongolia

In maggio sono tornato a Ulaan Baatar, che tutti chiamano UB, la capitale della Mongolia, per formare un gruppo di giovani ricercatori con disabilità. Ero tornato a UB dopo 10 anni e in questo periodo, la città era cambiata completamente. Vi erano più edifici, più macchine, più negozi, più ristoranti e più benessere. Nella foto sotto, la scultura del derviscio danzante a UB.



Questa volta il mio albergo era a due passi dal monastero buddista di Gandam. È un posto bellissimo. Così sono tornato al monastero più volte, una volta anche presto alla mattina per vederlo senza turisti. Era bello osservare i monaci buddisti che pregavano e meditavano.

Inoltre, con l’aiuto di Google Map, ho esplorato diverse altre zone della città senza avere paura di perdermi. Più volte sono tornato alla grandiosa piazza di Sukhbaatar con le due statue di Gengis Khan e il parlamento nazionale. Nella foto sotto, la Piazza Sukhbaatar alla sera dopo la pioggia.



Monrovia e Ganta, Liberia

Quest’anno sono stato in Liberia due volte, in luglio e in ottobre. Ho esplorato qualche zona della Monrovia, la capitale del paese, ma avevo sentito storie non molto rassicuranti sulla città da conoscenti e amici, e così ho evitato di andare in giro a piedi.

Ho scattato solo qualche foto dalla macchina. L’unica volta che ho tirato fuori la mia macchina fotografica a Monrovia, era una mattina presto nella zona dell’ambasciata americana, dove mi avevano assicurato che è ben sorvegliata.

Conoscevo il nome della città di Ganta da molti anni per via del suo lebbrosario. Visitare il vecchio lebbrosario era la parte più interessante di questo viaggio. A Ganta, vi erano meno problemi di sicurezza e non avevo paura. Così sono andato in giro a piedi, ma a parte le due strade principali della città con dei negozi, c’era poco da vedere. Nell'immagine sotto, la strada che collega Ganta con Sanniquellie, dove la nostra macchina era rimasta bloccata nel fango.



Un giorno siamo andati alla frontiera tra Liberia e Guinea Konakry e mentre scattavamo le foto, siamo stati sgridati dai poliziotti di frontiera.

Ho sentito che Liberia ha un parco naturale, ma nessuno sapeva quali animali vi sono in questo parco e in ogni caso, non era facile arrivarci. Altrimenti, gli unici posti da visitare in Liberia sono i resort, i centri turistici, lungo il mare, dove la gente benestante va per prendere il sole e a mangiare. Il mare liberiano è molto mosso e la balneazione non è consigliata.

I miei ricordi dei viaggi in Liberia sono legati più alle persone che ai posti. Per esempio, avevo letto e sentito molto sulla brutale guerra civile che aveva dilaniato questo paese nel periodo 1989-2003. Tra queste storie, vi erano quelle dei bambini soldato che erano stati costretti a compiere violenze contro le proprie famiglie e spinti verso tossicodipendenza, affinché diventavano brutali. Ho incontrato uno di questi ex-soldati, uno che era un adolescente all'epoca e che aveva visto l’uccisione di suoi genitori. Sentirlo parlare, mi aveva fatto venire i brividi e non ero stato capace di dire niente.

Viaggi in Italia

A parte qualche viaggio a Bologna per andare a trovare la nipotina, per la maggior parte del tempo siamo rimasti a Schio.

Le nuove scoperte nei dintorni di Schio erano il ponte galleggiante che collega la zona del Pasubio con il Campo Basso, la passeggiata a Valdastico sulla vecchia ferrovia e la passeggiata lungo il torrente Agno a Valdagno. L'altra novità a Schio era quella di far parte di un gruppo di lettura. L'immagine qui sotto è da una vista a Burano. Infatti, ero tornato a Venezia per visitare le isole di Murano e Burano che avevo visitate una volta nel lontano 1979.



Conclusioni

Ho in testa l’idea di visitare Cambogia e di tornare in Thailandia e Indonesia, ma quest’anno, ciò non era possibile. Un altro paese che mi attira molto è la Papua Nuova Guinea.

Chissà se riuscirò a fare qualche viaggio diverso nel 2019! In tanto, le mie valigie sono pronte per tornare in India. Inoltre, per seguire due progetti di ricerca emancipatoria, dovrei tornare di nuovo in Liberia e Mongolia.

Fortunatamente, non posso prevedere quello che ci aspetta nel 2019. Invece posso essere soddisfatto delle sensazioni e esperienze che ho potuto sperimentare nel 2018. Auguro a tutti voi e a me stesso, altri viaggi e altre scoperte nell’anno che verrà.


domenica 24 giugno 2012

Parlare dell'Africa

Recentemente sull'Internazionale c'era un articolo dello scrittore Keniotta, Binyavanga Wainaina intitolato "La nuova carta dell'Africa". Se avete avuto occasione di leggere altri articoli di Wainaina, penso che saprete già che ha un modo di esprimersi ironico e allo stesso momento, secco e tagliente.

In questo articolo, lui parlava della concezione e dell'immagine dell'Africa in Europa e in America dopo la caduta del muro di Berlino, e sosteneva che oramai conosciamo l'Africa soltanto da quello che ne dicono i rappresentanti delle grandi organizzazioni umanitarie, e spesso le voci sono degli espatriati europei o americani:
"... ti serve memorizzare nel telefono i numeri dei rappresentanti di tutte le organizzazioni umanitarie europee - Oxfam, Save the children, eccetera - in ogni paese africano. .. In questa era il veicolo di tutto il sapere locale sono le organizzazioni umanitarie, che parlano la lingua dei diritti umani e sono buone. Quindi se un corrispondente straniero ha bisogno di sapere cosa sta succedendo in Sudan, si chiarirà i punti più urgenti grazie alla sua colazione settimanale con il rappresentante di Oxfam ..."
Wainaina parla anche delle organizzazioni che cercano di promuovere "lo sviluppo delle comunità" in questo articolo:
"Questa parte dell'Africa è gestita da anonimi signori della guerra. Quando vengono sconfitti, questi posti sono gestiti da organizzazioni di base finanziati dall'Unione Europea che creano un buon posto per mandare i bimbi nati negli anni bisestili a dare una mano e a vedere anche le giraffe. La base esiste per stare seduta ad aspettare che arrivino gli agenti della sostenibilità (europei) e le diano un po' di potere."
Penso che con questa descrizione, Wainaina esagera un po', ma c'è più di un pizzico di verità nella sua affermazione. Negli anni di crisi come quelli attuali, spesso l'unico modo di lavorare per le organizzazioni di volontariato è quello con i progetti cofinanziati dall'Unione Europea, con i loro finanziamenti di 1-3 anni e con le compulsioni di costruire le sembianze di uno sviluppo comunitario con le tecniche dirigenziali delle grandi corporazioni. Per cui, prevale lo sviluppo calato da sopra che costruisce scenografie da fotografare e filmare, ma che cambia niente.

Wainaina chiude il suo articolo con un avvertimento: l'Europa sta perdendo l'Africa e che l'Africa ha scelto altri interlocutori per il suo dialogo - interlocutori orientali e medio orientali, perché non riesce più a farsi sentire dall'Europa.

Si può discutere molto su diversi punti che solleva Wainaina in questo articolo, ma non si può negare che in Europa nei giornali "normali" è quasi impossibile sentire le voci africane su qualunque tema che riguarda l'Africa. Dove sono le voci di pensatori, filosofi, economisti, attivisti, scrittori africani quando succede qualcosa in Africa?

Anche le voci autorevoli come quelle di Wole Soyinka o Samir Amin, sono quasi sconosciute in occidente. Perché l'Africa non ha le voci proprie per raccontare la sua storia? Forse questa assenza ha le sue radici nel passato, nella storia dello schiavismo?

Europa aveva colonizzato anche l'Asia e il sud America, ma forse nella recente storia, nessun altro popolo è stato trattato come gli africani - come esseri "non umani", esseri da raccogliere durante le spedizioni di caccia, incatenati e trasportati in giro per il mondo. In confronto, per portare i "girmitiya" indiani come lavoratori nelle colonie, gli inglesi dovevano attirare le persone con inganno, con le esche del sogno di una vita migliore, come onesti lavoratori. Alla fine anche gli indiani si trovavano in situazioni terribili e erano trattati poco meglio degli africani, ma avevano dei contratti, ciò è un riconoscimento che erano delle persone, anche se avevano poco potere.

Forse sotto sotto, in Europa resta quell'idea dell'Africa come la terra di nessuno, una terra senza civiltà. Per questo che ancora oggi le voci africane restano non ascoltate?

Comunque, come Wainaina, vi sono molte altre voci africane che raccontano quello che succede nei loro mondi. Penso che sia importante ascoltare anche loro, se vogliamo capire meglio quello che succede in quei mondi.

Graphic African Voices - S. Deepak, 2012

Per esempio, potete iscrivetevi ad un newsletter settimanale di Pambazuka.org, una lista di email gratuita, in inglese, portoghese e francese, che racconta i problemi dell'Africa visti e raccontati dagli africani. Vi garantisco che resterete stupiti da quanto spesso loro descrivono il loro mondo e i suoi problemi così diversamente da come lo fanno i giornali europei (quelle rare volte che lo fanno) o le organizzazioni umanitarie!

Sul sito di Pambazuka troverete tutte le informazioni per l'iscrizione (il link porta alla pagina in inglese - in alto sulla sinistra troverete i link alle pagine in francese e in portoghese).

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